“Che bello quassù! Pensi che non c’ero mai venuta”: è la frase pronunciata da una suora che accompagna i protagonisti del film “L’avventura” di Michelangelo Antonioni sulla terrazza della Chiesa di San Carlo Borromeo, nella bella Noto, in Sicilia, mentre i due sono intenti in un dialogo che li porta a guardare dall’alto la città. Tema, questo, che ha ispirato tanti autori della cinematografia italiana e non solo. Di riferimenti, infatti, ad ambientazioni e riprese realizzate da tetti e terrazze vi è un vasto repertorio.
Ci piace ricordarne qualcuno. Vittorio De Sica, ad esempio, inizia il suo ultimo film neorealista “Il tetto” proprio con la visione dall’alto dei palazzi in costruzione di una borgata romana. E poi, come non citare le divertenti e caricaturali situazioni create da Mario Monicelli ne “I soliti ignoti“: la scena del sopralluogo, nella quale i protagonisti devono individuare “la comare” (la cassaforte) e sopratutto una delle scene clou, in cui lo scassinatore (Totò), agli arresti domiciliari, impartisce lezioni come consulente degli interpreti, sulla terrazza, mentre dietro di lui campeggia il panorama della periferia urbana. Anche Ettore Scola nel suo capolavoro “Una giornata particolare“, descrive alcuni momenti sul terrazzo di un condominio, dove tra lenzuola e panni svolazzanti, a tratti s’intravede la città, mentre una casalinga (Sofia Loren), tenta di conquistare il dirimpettaio radiocronista (Marcello Mastroianni).
In campo pittorico, invece, il tema dei tetti è stato introdotto in un passato piuttosto recente e più precisamente sul finire dell’Ottocento. O meglio, vi sono opere antecedenti che hanno in qualche modo anticipato composizioni di scenari urbani con tetti, ma senza una prospettiva dall’alto. Per la sua singolare specificità, comunque, possiamo senz’altro affermare che il tema sia stato affrontato da pochi artisti.
A metà degli anni settanta dell’Ottocento due pittori impressionisti, Camille Pissarro e Paul Cézanne, legati da un forte rapporto di amicizia, lavorano entrambi a Pontoise, riproducendo en plein air gli stessi soggetti del piccolo villaggio agricolo, ciascuno secondo il proprio stile peculiare. Nelle sperimentazioni di questo periodo, tese a rinnovare il linguaggio pittorico sul paesaggio, i due dipingono le case e i tetti della campagna francese dietro una cortina di alberi, utilizzando però sempre un punto di vista dal basso. Pissarro parteciperà con l’opera “I tetti rossi, angolo del villaggio, effetto d’inverno” alla terza mostra impressionista del 1877.
Sarà un altro grande impressionista, Gustave Caillebotte, artista e mecenate del gruppo – che si dedica alla pittura grazie anche alla spinta di De Nittis, nostro conterraneo e suo grande amico – ad essere il primo, nel 1878, a riprodurre un panorama della città dall’alto, così come lo vedeva dal terrazzo del suo sontuoso appartamento parigino.
Nell’opera “Veduta di tetti, effetto neve“, esposta alla quarta mostra impressionista del 1879, Caillebotte coglie in un’inedita e affascinante vista i tetti innevati di Montmartre, il caratteristico quartiere di Parigi, con un taglio decisamente fotografico. Il pittore, innovatore e moderno, sarà anche il primo a comprendere l’importanza che la fotografia, appena nata, poteva apportare alla pittura, considerandola come il miglior mezzo per documentare la vita di tutti i giorni. Con le sue vedute dall’alto, tipiche del suo stile, Caillebotte, sembra anticipare un tipo di fotografia che si svilupperà solo qualche decennio più tardi.
Ciononostante, nell’ambito pugliese, a soli due anni da quello che, molto probabilmente, è stato il suo primo paesaggio, ossia “Paesaggio Italico“, Francesco Speranza, prima di dipingere, in una serie di memorabili vedute, i luoghi e gli spazi della città antica dal basso, con grande intuizione, nel 1934, sceglie di rappresentarla dall’alto, in una visione insolita per quei tempi, con l’opera “Tetti di Bitonto“.
Con questo secondo paesaggio l’artista manifesta il suo semplice approccio ad un tema singolare. Sceglie con grande coerenza e accuratezza il luogo più consono alla costruzione dell’immagine da riprodurre su tela, optando per un campo visivo ristretto, raffigurando quindi con una zoomata, la città di Bitonto dall’alto.
La composizione è dominata dalla presenza di una chiesa, con il suo articolato sistema di coperture, sul quale svettano la cupola e il campanile. Questo insieme emerge dalla lunga facciata ricurva di un edificio dalle notevoli dimensioni. Sovrapposte o separate, per il passaggio di una strada, tutt’intorno si dispongono una serie di fabbriche più minute, che si accostano in successione come quinte pieghettate. Oltre il paesaggio urbano, la vista sulla campagna di ulivi che termina all’orizzonte, dove sul cielo, in lontananza, si staglia un altro paese.
Il quadro prospettico del dipinto è ripreso dal terrazzo di un edificio ubicato su Vico San Luca laddove la strada subisce una spezzata nel suo andamento. A sinistra, in primo piano, s’impone la facciata laterale del Palazzo Sylos-Labini, l’ex Vulpano, prospiciente proprio quel vicolo. La cupola, semisferica, scandita da costoloni estradossati, ricoperta di tegole e chiusa in cima dal lanternino vitreo, è quella della Chiesa di San Luca. Essa poggia su di un basso tamburo, senza bucature, che affiora dal perimetro d’imposta della struttura, sul quale, invece, sono visibili due dei tre lunettoni che fanno piovere, tra i pennacchi, la luce nello spazio interno.
Il campanile a vela della chiesa segna il centro del dipinto. Questo elemento architettonico, cui spesso Speranza assegna la stessa valenza, diviene quasi un tratto distintivo dei suoi primi lavori sul paesaggio, peraltro tutti sulla propria città. Lo aveva già fatto prima in “Paesaggio Italico” e lo ripeterà anche dopo in “Panorama del mio Paese“.
L’immagine attuale della cupola, rispetto a quella raffigurata nel dipinto, è ben diversa. Vien da chiedersi se fosse effettivamente quello l’aspetto originario o se Speranza avesse sentito la necessità di arricchirla di dettagli vista la spoglia consistenza reale. Oggi la cupola appare protetta con una semplice pitturazione argentea, quindi priva di tegole e soprattutto dei costoloni, gli elementi strutturali che caratterizzano il disegno del dipinto.
Le facciate degli edifici sono tutte intonacate e non con la pietra a vista, come vuole oggi una certa consuetudine in voga. Le superfici sono tinteggiate in gran parte di bianco. A queste si mescolano in alcuni casi i toni ocra e rossicci. L’unico aspetto materico è segnato dalle bordature rosse delle tegole. Il vuoto definito dal passaggio della strada si percepisce dalla successione verticale delle finestre che si ripetono, in una sequenza, sulle corte facciate, interrotta solo dal verde di una rampicante, che s’inerpica su una di queste.
La linea d’orizzonte, definita dalla campagna degli ulivi e dal cielo, non è continua, ma è interrotta da elementi verticali: la cupola, il campanile e una serie di comignoli. Sopra di essa, in lontananza, è sintetizzata, in una macchia di colore bianca e rossa, la città di Palo del Colle.
Alcune figure, quasi tutte femminili, animano il dipinto, legandolo alla vita quotidiana e restituendo all’opera un tocco neorealista in virtù della particolare atmosfera e della riproduzione particolareggiata dell’ambiente. Quasi un’eccezione, questa, alla poetica idealizzante di Speranza. Le donne, comunque, sono collocate nello scenario urbano con un criterio compositivo geometrico, in punti che individuano i vertici di un triangolo immaginario, che orienta la visione verso l’orizzonte, sulla città che si vede in lontananza.
Questo spirito geometrico è ritracciabile in tante altre opere di Speranza, divenendo anch’esso un elemento caratterizzante la sua cifra stilistica. Le donne inoltre, a seconda della posizione che occupano sulle terrazze sembrano obbedire anche ad un preciso status sociale: una, finemente vestita, appare sfaccendata sulla terrazza del palazzo aulico, l’altra, più dimessa, è indaffarata nella cura delle piante in cima ad una casetta rossa; altre, infine, prese a chiacchierare su di una terrazza più bassa, con una bimba o bimbo che si affaccia alla finestra a guardare per strada, chiudono in gruppo la figura triangolare immaginaria.
Questa narrazione realistica è pervasa da un lirismo poetico che poi sostanzia tutta la pittura di Speranza, semplice e umile, ma che diviene anche prodigiosa per la sua capacità di imprimere sulla tela, con gran forza, la bellezza. È davvero un gran peccato che Speranza non abbia avuto la fortuna critica che meritava.
I tetti di Bitonto di recente sono stati raccontati anche nell’ambito della fotografia, da Vincenzo Castella, figura autoriale già presente in quel grandioso e rivoluzionario progetto, ideato da Luigi Ghirri, che è stato “Viaggio in Italia“. Il fotografo descrive e racconta, con la raccolta di alcune vedute dall’alto, “I tetti di Puglia“, il volto di alcune città della regione, mettendo in risalto i tracciati, le trame e le differenze tra i vari tessuti urbani che vengono ritagliati, attraverso la fotografia, nella struttura narrativa. In questo lavoro Bitonto appare ripresa da uno degli edifici più alti, che domina l’abitato antico della città da Porta Robustina.
Poter godere, oggi, della visione dall’alto della città, attraverso eventi particolari, è un obiettivo perseguito da molte grandi città, come Milano ad esempio, in cui vi è la nuova tendenza a proiettare film sulle terrazze di edifici alti.
Certo immaginare di promuovere questo genere di iniziative nel nostro contesto cittadino risulta alquanto difficile, però considerato il successo e il riscontro che ultimamente la formula dello spettacolo e dei festival ottiene, si potrebbe pensare di indirizzare questo genere di manifestazioni in questa direzione. Del resto i Beatles, il 30 gennaio 1969, con il celebre Concerto sul Tetto, hanno tenuto l’ultima esibizione pubblica del gruppo. E perché no, si potrebbe ripartire, a Bitonto, proprio da questa idea!
Nella foto in alto, “Tetti di Bitonto”, opera del 1934 di Francesco Speranza