Suscitano un pizzico di invidia le immagini di giovani distesi in riva al mare a Barceloneta, di gente che passeggia per le piazze di Madrid o che esulta, munita di mascherina, nel corso di un concerto ad Amsterdam. Nè si può dimenticare il numero 0, alla voce “deceduti per covid-19 a Londra”, dove la campagna vaccinale è ormai agli sgoccioli.
Lo scenario che i media offrono dalle diverse regioni del vecchio continente al Bel Paese lascia pregustare ciò che potrebbe accadere tra qualche mese anche qui da noi. Attualmente, però, la morsa dei contagi non allenta, obbligando allo stato d’emergenza l’intero Stivale, con alcune zone rosse, tra cui la Puglia, che solo a fine aprile potrebbero scolorirsi.
Da profondo rosso – proprio come il colore degli errori gravi segnati sui compiti in classe – è il contesto giovanile, che tra restrizioni della movida e scuole chiuse, si dibatte tra improvvise impennate e altrettanto rapide discese educative e affettive. Un clima di disagio e di incertezza, accentuato dal fatto che in Puglia i genitori possono decidere sulla tipologia di didattica: in presenza o a distanza per i ragazzi fino alla prima media, mentre per tutti gli altri gradi di istruzione, lezioni e compiti al pc sono obbligatori.
I cambi di colore delle regioni, con tutto quanto ne consegue in termini di differenti stili di vita, ormai da oltre un anno, stanno provocando effetti assai poco confortanti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva preannunciato la pandemic fatigue (fatica da pandemia) definita come “la risposta prevedibile e naturale a uno stato di crisi prolungata della salute pubblica, soprattutto perché la gravità e la dimensione dell’epidemia da Covid-19 hanno richiesto un’implementazione di misure invasive, con un impatto senza precedenti nel quotidiano di tutti”.
I mesi del 2020 sino ad oggi hanno condotto a forme di stress prolungati, non avvertite all’inizio, ma che soprattutto in questo ultimo periodo stanno comportando sensazioni di stanchezza mentale e fisica. Silvia Mimmotti, psicologa anconetana, e Stefania Loiudice, counselor barese, a partire dalle loro esperienze lavorative in differenti città italiane hanno descritto la “questione giovanile” sotto il profilo educativo e affettivo, messi a dura prova dalle regole imposte dalla pandemia, creando un’impennata di richieste di aiuto e di ascolto.
“Affaticamento, irritabilità ed anergia, intesa come incapacità/rinuncia a fare qualcosa perché appare mentalmente faticosa, stanno intaccando tutte le sfere della nostra vita”, sostiene la dott.ssa Mimmotti, che attualmente lavora a Milano e a Jesi, occupandosi di benessere psicologico, gestione del lutto, educazione affettiva e sessuale e di difficoltà/disturbi dell’apprendimento.
Il senso di insofferenza di molte categorie lavorative, le sofferenze raddoppiate di molti soggetti fragili, la corsa ai vaccini sono solo alcuni aspetti che stanno colpendo ogni fascia sociale: “La rabbia crescente per le restrizioni e le limitazioni imposte dalla diffusione del virus, alimentano nervosismo e insofferenza verso le regole stesse”, afferma la psicologa. E dietro tali aspetti negativi, altri più silenti e profondi si stanno addensando: un mare tempestoso nel quale rischia di naufragare la barca dei “nuovi fragili”, figli della pandemia, come adolescenti, neo-genitori, personale sanitario, disoccupati e coloro che hanno perso qualcuno a causa del contagio.
Probabilmente i giovani non possono ritenersi nuovi fragili, poiché già dal lockdown del 2020 sono tra i soggetti che hanno subito le restrizioni, con danni oggi ancora poco visibili ma non certo in prospettiva. La dottoressa Mimmotti inquadra un aspetto interessante che li relega ancora in quella fatidica fascia di ultimi, in attesa che “qualcosa torni come prima”: “La situazione dei giovani è tutt’altro che semplice. Sebbene siano stati sinora i meno colpiti in maniera grave dal contagio, sono gli ultimi a poter giovarsi dei vaccini; sono i primi a cui è richiesto un sacrificio per la tutela delle famiglie e, soprattutto, degli anziani. Spesso senza strategie positive per gestire questa situazione, subiscono la disorganizzazione scolastica e le restrizioni sociali in un periodo della loro crescita in cui il confronto con l’altro dovrebbe essere cruciale per la strutturazione dell’identità e della personalità”.
Queste inefficienze sviluppano sintomi di ansia, depressione, disordini e disturbi dell’alimentazione, alterazioni del sonno, nuove dipendenze (da internet e social network). Tutte problematiche che la pandemia ha amplificato in percentuali e casistica. Proprio la psicologa ricorda i dati a partire da un’indagine condotta dal Gaslini di Genova tra fine marzo e inizio aprile: “A dimostrazione della sofferenza dei ragazzi per la pandemia, in Italia e nei Paesi Bassi, alcuni reparti di psichiatria giovanile hanno raggiunto il record di pazienti. Nel nostro Paese le segnalazioni di coloro che hanno pensato o tentato il suicidio sono aumentate del 30% durante la seconda ondata”, spiega la dottoressa, insegnante di tecniche di rilassamento e consulente di psiconcologia e di sessuologia femminile. Che aggiunge: “I dati della Polizia mostrano come, nel lungo periodo del lockdown del 2020, sia aumentato del 15% rispetto all’anno precedente il numero di suicidi e gli atti autolesionistici dei minori”. Tralasciando cifre e percentuali la psicologa registra, attraverso l’esperienza della sua professione, che molti ragazzi lamentano la mancanza di passatempi e attività piacevoli da svolgere in casa e da soli e perciò tentano la via di evasione nella virtualità.
Dietro ad un monitor o incantati sul display dello smartphone, quegli stessi strumenti più che mai decisivi per l’apprendimento scolastico, sono esposti a gravi rischi, come testimoniano le notizie di minori protagonisti di gesti inconsulti e, in alcuni casi, di suicidio. La voglia di evasione attraversa un momento di implosione che si manifesta, a volte, nell’uso indisciplinato dei social network. Se prima della pandemia tra i più giovani spopolavano fenomeni “nascosti”, rischiose pratiche virtuali travestite da “challenge”, che mettevano a repentaglio il benessere psichico e la vita stessa di tanti ragazzi e ragazze, ora sfuggire alla realtà limitata delle mura domestiche ha finito con l’amplificare tali esperienze.
Già nel 2019 esistevano siti web contenenti “giochi pericolosi”, come il Blue Whale che portava gli utenti al suicidio, con i ragazzi coinvolti quotidianamente in sfide sempre più pericolose e in atti autolesionistici. Fino all’ultimo giorno in cui, lanciandosi da un palazzo molto alto, l’utente poteva trovare la liberazione dalla spirale di paura e dolore in cui il gioco lo aveva gettato. Recente è la comparsa, sul social Tik-Tok, di Black out Challenge, una sfida inquietante fra due contendenti che devono resistere il più a lungo possibile senza respiro: un “gioco” che ha portato un bambino di meno di dieci anni ad impiccarsi nella sua cameretta.
E’ più che mai urgente non solo il controllo degli adulti negli accessi al mondo virtuale dei figli, ma l’avvio di un percorso educativo che metta in dialogo le generazioni, genitori e figli, educatori/professionisti e ragazzi. La capacità di “smanettare” facilmente, elude il bisogno di regole, di disciplina; fa sì che si insinui l’idea errata che i nativi digitali siano in grado di districarsi autonomamente sul web. “E’ importante lavorare nell’ottica della prevenzione, responsabilizzando e aumentando la consapevolezza nei giovani nell’utilizzo dei social e del web in generale e, se serve, soprattutto nel caso dei più piccoli, installando dei blocchi e delle protezioni in modo da limitare l’utilizzo di internet ai soli contenuti adatti o a certe fasce orarie”, afferma la dottoressa. “Reputo sia essenziale inoltre condividere con i ragazzi del tempo, aiutarli ad esternare i loro vissuti emotivi legati alla pandemia e non solo, incoraggiare la comunicazione “dal vivo” e coinvolgerli in attività pratiche e stimolanti”, prosegue.
Certamente il ripetersi di atti estremi come quelli dei due bambini di Bari e Palermo impone di accelerare le strategie per un accompagnamento psicologico in questo periodo di emergenza sanitaria. E’ necessario lavorare il più possibile sul fronte della prevenzione. Il primo passo, perciò, è rinsaldare le relazioni affettive, accompagnare le dinamiche familiari, che stanno risentendo degli effetti della “clausura forzata”. L’uso spropositato dei social network ha reso omogenee e uguali le mancanze delle figure familiari, trasversalmente in tutte le fasce sociali. La camera e lo schermo del cellulare diventano gli unici interlocutori dei ragazzi, una finestra sul mondo per scappare dalle regole, tipico degli adolescenti.
Stefania Loiudice, assistente sociale e counselor di Bari, ha avuto modo di interfacciarsi con alcuni nuclei familiari: “Non ho notato differenze sull’utilizzo dei social relativamente alla tipologia delle famiglie, più o meno abbienti. Ormai ogni bambino dai 6 anni in su ha un suo cellulare ed è lasciato solo nel suo utilizzo. I social sono diventati i nuovi “amichetti” dei propri figli e i genitori non si pongono il problema di conoscerli, perché così fan tutti”.
Proprio il “così fan tutti” incide sulle relazioni e sugli usi e abusi del virtuale, diventando la discriminante che provoca tragedie improvvise o episodi di devianza. Oltre all’emergenza educativa digitale, è opportuno iniziare un percorso di consapevolezza perché si assecondano facilmente i rischi dell’uso del virtuale proprio a causa dell’apparente aspetto ludico di un’applicazione: “Relativamente ai rischi né i bambini né i genitori sono consapevoli, poiché pensano che il pericolo debba essere qualcosa di palese e quindi prevedibile ed evitabile; invece i pericoli arrivano in modo subdolo e silente”.
A questo alone di invisibilità si contrappone il desiderio dei più giovani di apparire forti, competitivi, migliori soprattutto tra coetanei. I social diventano così teatro di gare, una sorta di vetrina per le apparenze: “Il valore che un bambino ha di sé è fortemente legato a come appare, per questo i social possono portare alle drammatiche conseguenze di cui, purtroppo, leggiamo sempre più spesso” sottolinea la counselor. Ogni strategia, ogni forma di dialogo, ogni tentativo di recupero deve essere “filtrato” da valori affettivi spesso tralasciati e fraintesi.
Le crepe vanno riparate restituendo nuovi occhi e sguardi per i figli e per i giovani. A loro occorre offrire maggior spazio. Forse la ricerca di nuove prospettive per il futuro, che la pandemia ha contribuito a rendere più incerte, hanno amplificato la consapevolezza sull’emergenza educativa. Un’emergenza che va affrontata a partire dal quotidiano, con la bellezza che i giovani incarnano e che riescono a trasmettere a tutta la comunità in cui vivono, nell’indifferenza, molto spesso, degli adulti. Proprio come osserva Stefania Loiudice: “Il punto centrale credo sia il fatto che i ragazzi testimoniano un vuoto di attenzioni, di cure e un forte desiderio di sentirsi amati e valorizzati”.