Talentuoso artista barese, geniale in ogni sua espressione, Michele Giangrande non ha mai deluso le aspettative del pubblico, dalle primissime esperienze accademiche alla sua produzione più matura. Artista, scrittore e designer è attualmente docente di Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Bari. Il suo ultimo impegno lo vede protagonista e regista dello short movie Hyperzoo, un corto d’arte con il quale ha partecipato ai festival di Sanpietroburgo, Colorado Springs e Sirkali in India, dove è stato insignito del premio Golden Sparrow best silent short film e, infine, è risultato vincitore del Cambio International film festival di Berlino, come miglior opera prima.
Questa piccola perla movie, quanto mai sibillina della nostra attuale condizione storica, si impone e si lascia scorrere, con tutta la forza dell’imprevisto. L’incipit è la mostra di Giangrande al Macro di Roma nell’estate del 2019. In quell’occasione, la prestigiosa galleria capitolina ha offerto ad ogni artista uno spazio per mostrarsi e mostrare l’atto della creazione artistica. Michele, da abile e raffinato performer, ha reso la sua “cella” di vetro, dapprima vissuta con scomoda ostentazione, in spazio osmotico condiviso con il pubblico. Una modern cage che non occlude ma contiene, irrequieta quanto basta, che implode e moltiplica inconsapevolmente il pensiero silenzioso dell’uomo ingabbiato, secondo le teorie di Desmond John Morris.
Nel prodotto cinematografico che ne è conseguito, l’artista è protagonista assoluto, prima di offrire un varco al pubblico che interagirà con il suo lavoro. Incede, si accovaccia, ti osserva, si lascia agire, comunica attraverso una sottile vibrazione che si avverte per tutto la durata dello short film, scritto e diretto dall’artista stesso e prodotto da Clan Sui Generis. Ogni segno si fa corpo, votato ad una libertà avvertita come bisogno, soprattutto dall’animale contemporaneo che l’uomo rappresenta, invischiato nella rete che tutto espone sfacciatamente, oltraggiando il nucleo indentitario attraverso un vouyerismo di massa.
Affrancato da condizioni e curiosità, Giangrande dilata lo spazio concesso, illusorio e ingannevole, privilegio del singolo, in luogo condiviso e invita il pubblico a partecipare senza nessuna precisa indicazione. Solo un pennarello rosso in dotazione e lo spazio iper-affollato da parole scritte, immagini, slogan, pubblicità stampate. E a poco a poco il vetro scompare e con esso il grande occhio. Ora lo spazio e i suoi confini li stabilisce l’artista.
In memoria di caste ritrosie di fugaci attimi d’amore, Michele ricicla fogli di giornale, gli stessi che da ragazzino vedeva incollati goffamente sui finestrini di auto appartate nel silenzio della notte e inizia, quale ieratico sciamano vestito di bianco, a ricoprire tutto lo spazio – fisico, incorporeo – con fogli di giornale, riposti l’uno accanto all’altro con cura certosina. Ora in questo moderno hyperzoo tutti transitano e lasciano impronte. Un atto fortemente performativo e sociale in cui l’iniziale trappola si tramuta in percorso iniziatico capillare, relazionale e intensamente evolutivo.
Abbiamo chiesto direttamente all’artista come vive questo particolare momento storico, in relazione al suo fare arte e ai suoi ultimi progetti.
Il tuo lavoro appare fortemente profetico. Da una apocalisse sociale siamo arrivati ad una pandemia mondiale, con conseguenti chiusure e blocchi. Come sta reagendo l’arte dinanzi a queste limitazioni?
La pandemia ci fa vivere in isolamento. Per noi artisti, e non solo, ora è il momento della riflessione e della progettazione. La mente umana è straordinariamente capace di adattarsi e trovare nuove strategie rispetto a qualsiasi condizione, anche la più drammatica, rigida ed estrema. La creatività genera idee che sono già “sintonizzate” con le possibilità di attuazione e il contesto storico-sociale in cui agisce. Tutto questo è magico. Questi siamo noi. L’artista è colui che trasmette e trasforma questa capacità intrinseca in un’opera d’arte. Finalmente possiamo, anche se momentaneamente, abbandonare la nostra condizione supertribale di zoo umano, per dirla alla Desmond Morris, e rivolgerci ad una dimensione più “primitiva”, intima, semplice, elementare direi, nell’accezione più nobile del termine. Una sorta di via d’uscita dallo stato di empasse in cui la civiltà umana sembra essere giunta. Ovviamente è utopico pensare di poter ritrovare la dimensione naturale di vita della nostra specie, ma possiamo approfittarne, anzi dobbiamo, per avvicinarci il più possibile a tale condizione. Il che non significa involuzione, anzi, ma vera e propria rivoluzione. Detto questo, per me è fondamentale, soprattutto in questo preciso momento storico, prevedere il coinvolgimento dello spettatore con e in tutti i sensi. Non c’è arte senza pubblico. L’arte è un messaggio e in quanto tale deve andare da un punto A a un punto B per avere ragione di esistere. Nel momento in cui un artista immagina un’opera d’arte, ne è lui stesso il primo spettatore. Sono concentrato ormai da tempo su realizzazioni di arte pubblica responsabile, permanente e non, con un focus particolare su operazioni multisensoriali di tipo immersivo, esperienziale, metamorfico, partecipativo e performativo. Con The Hyperzoo, operazione del 2019 conclusasi con un film terminato nel 2020, ho anticipato inconsapevolmente l’isolamento e l’alienazione, incentivando al tempo stesso la relazione quasi come se fosse l’ultima occasione. “Quando partecipai ad Hyperzoo, nel cubo di notizie, chi se lo sarebbe aspettato che poi ci saremmo finiti realmente” (cit. di un partecipante all’operazione).
Michele, l’arte contemporanea che direzione sta prendendo, tra esibizioni on line e realtà virtuale, già da tempo abbastanza frequentata?
L’unica ed inevitabile, ovvero quella della fruizione semplice e pura, senza barriere o contenitori adibiti a tale scopo, in maniera reale piuttosto che virtuale. I contenuti? Come ho già detto in altre occasioni, l’arte contemporanea durante e post pandemia racconterà probabilmente, o inevitabilmente?, la punizione per il ciclopico capitalismo piegato da un essere infinitamente piccolo. Davide contro Golia, dove il gigante rappresenta l’ormai smisurata scelleratezza della vita che conduciamo. Avremo però sempre più bisogno del concreto e sempre meno di contenuti eterei. C’è bisogno di ritornare in quella “caverna” spinti da quella primitiva esigenza di lasciare un segno tangibile, incidendo la roccia e sporcandoci le mani con pigmenti naturali. È una questione fisiologica. Almeno spero.
Nella tua pratica artistica riesci a conciliare le committenze?
La direzione che la mia ricerca e i miei interessi hanno ormai intrapreso mi vede principalmente impegnato con enti e spazi pubblici. Il lavoro “da galleria”, per quanto presente e necessario per certi versi nella vita di un artista, nel mio caso è passato in secondo piano. Ho collaborato con diverse gallerie e fatto numerosissime fiere come da manuale, ma oggi per me è il tempo di lasciare una testimonianza. Sento il bisogno di pubblicare libri, realizzzare interventi permanenti, progettare operazioni totalizzanti attraverso l’uso sistemico di pittura, scultura, artigianato, performance, cinema, installazione e architettura traendo ispirazione nell’arcaico, nel primitivo, nella rilettura del passato senza limiti di genere o regole preconfezionate. Lo stesso colossale ed estremamente complesso progetto della Tetralogia degli Elementi, cominciato con BUNKER (la terra, 2018) e seguita con THE HYPERZOO (l’aria, 2019/2020), a cui seguiranno fuoco e acqua, ne è testimonianza. Gli obiettivi che questa operazione si pone sarebbero sviliti e non troverebbero spazio in un sistema basato solo sulla compra/vendita di un’opera.
Nelle immagini, alcuni frame del video The Hyperzoo