Nata a Mola di Bari nel 1927, Cecilia Mangini è stata la prima donna che in Italia ha osato posizionarsi dietro la macchina da presa per documentare la storia del Paese. Un posizionamento mai meramente fisico, ma “militante”, per usare un aggettivo divenuto nel tempo, come da lei sostenuto, una vera e propria “parolaccia”. Alla pioniera del cinema femminile italiano, venuta a mancare lo scorso 21 gennaio, l’Accademia del Cinema Italiano ha deciso di dedicare il David di Donatello per il cinema documentario.
Era la fine degli anni Cinquanta quando il produttore Fulvio Lucisano le propose di girare il suo primo documentario: Cecilia Mangini scelse così di raccontare la realtà sommando il suo sguardo a quello, altrettanto “problematico” e complesso, di Pier Paolo Pasolini. Nacquero così Ignoti alla città (1958), Stendalì (1960), La canta delle marane (1962). Documentari che fin da subito esprimevano in maniera cristallina la poetica che avrebbe poi orientato la successiva filmografia della regista, dando voce a coloro che vivono ai margini, difendendo, appunto pasolinianamente, la “forma della città” dall’abusivismo e dalla cementificazione, facendo emergere la desolazione di una campagna devastata dal cemento delle periferie. Con il suo cinema fatto di muri slabbrati, ferite che lasciavano intravedere l’avanzare delle ciminiere nella Milano degli anni Cinquanta, ha registrato, come un medico legale, gli ultimi scampoli di una cultura contadina e pre-cristiana, prima che questa venisse spazzata via dall’avvento della civiltà industriale e dei consumi.

Cecilia Mangini ha trovato un compagno ideale con cui condividere esistenza e mestiere in Lino Del Fra (Roma, 20 giugno 1929 – 20 luglio 1997) che, come lei, iniziò a muovere i primi passi nel mondo del cinema nel dopoguerra, collaborando con i circoli di cinema, scrivendo per Cinema Nuovo, Bianco e Nero, Avanti!, Mondo nuovo e curando l’edizione di Le notti di Cabiria per la collana di Renzo Renzi Dal soggetto al film. Ogni progetto, nato da Mangini o Del Fra, realizzato o meno, è stato il frutto di un sodalizio fuori dal comune. Rivedendoli adesso, dai loro film emerge l’immagine di una classe dirigente disposta a tutto per mantenere il potere dopo gli sconvolgimenti della guerra, dalla rimozione del recente passato fascista alla censura di ogni forma di contestazione, come testimoniano le decine di soggetti mai compiuti, rimasti impantanati nelle maglie della censura preventiva, sepolti vivi nei locali dell’allora Ministero del Turismo e dello Spettacolo che aveva il compito di erogare i finanziamenti per opere considerate di interesse culturale. È proprio ripercorrendo le tappe della realizzazione e della distribuzione delle opere di Lino Del Fra e Cecilia Mangini attraverso il materiale preparatorio, le bozze di sceneggiatura, gli scatti fotografici dei sopralluoghi per le riprese, la corrispondenza con i produttori, che è possibile tracciare una mappa dei principali crocevia che hanno contribuito a definire il travagliato percorso del documentario in Italia.

Con All’armi siam fascisti! (1960) sono i primi, insieme a Lino Micciché, a mettere in atto una riflessione visiva sul regime e un tentativo di offrire un accesso democratico alla conoscenza storica per mezzo della documentazione audiovisiva, senza rinunciare mai alla natura militante del loro cinema, per cui il documentario deve essere arma di lotta culturale, in termini gramsciani. Se, come Michael Foucault e Jacques Derrida avevano precedentemente evidenziato, l’archivio è un istituto in cui agiscono simultaneamente strutture di potere, esclusione e gerarchia, Mangini, Del Fra e Micciché trasformano il processo di raccolta del materiale in uno strumento di militanza attiva, sovvertendo l’idea dell’archivio come fonte monolitica di conoscenza. Dopo che l’Istituto Luce, il maggiore archivio italiano di filmati storici, precluse loro l’utilizzo dei suoi materiali, i tre furono costretti a rivolgersi ad archivi stranieri (jugoslavo, britannico, francese e svedese). Ancor prima che iniziasse il lavoro di “manipolazione” delle immagini, quindi, il processo di selezione e raccolta delle stesse determinò la creazione di un nuovo archivio costituito da documenti sparsi, che il pubblico avrebbe finalmente fatto propri. In questo modo il documentario diventò uno strumento fondamentale nella democratizzazione della cultura e un valido alleato nella lotta antifascista, coinvolgendo il suo pubblico in una lettura critica delle fonti audiovisive.
Ma è nel 1965, con il documentario Essere Donne, che Cecilia Mangini raggiunse forse l’espressione massima della sua personale estetica cinematografica, combinando forme di indagine e propaganda, impiegando filmati di archivio, collage e documenti originali. Con il suo uso di tecniche differenti e all’avanguardia, Mangini si pose alla guida di un “controcinema” (per dirla con Claire Johnston) in grado di sovvertire la struttura convenzionale del film politico e sviluppare nelle sue fessure un discorso autonomo, rivolto principalmente alle donne. La riappropriazione femminile dell’apparato cinematografico attraverso la rimodulazione dei rapporti tra cinema, ideologia e militanza. Il discorso ideologico nasce dalle immagini ed esiste già al loro interno, nella loro composizione, nel loro montaggio e collocamento, secondo una logica che non ammette casualità o digressioni. La complessità del ritmo visivo non può che essere squisitamente razionale e articolata in nome di uno scopo culturale (ideologico-pragmatico) predominante.

Nel solco di Antonio Gramsci e dell’avanguardia sovietica, Cecilia Mangini ha sempre confermato il suo impegno per un progetto rivoluzionario che utilizzasse il cinema come leva. La sola ad essere stato in grado di sviluppare un approccio antiegemonico al cinema in un contesto prevalentemente maschile, l’esperienza di Mangini può ancora oggi suggerire nuove strade di indagine nella costruzione di una storia cinematografica femminile capace di portare alla luce la molteplicità di sensibilità che, anche in questi ultimi anni, hanno alimentato un acceso dibattito sulle lacune dell’apparato cinematografico.
Nella foto in alto, un recente ritratto di Cecilia Mangini realizzato da Valentina Durante