Giosuè: “Perché i cani e gli ebrei non possono entrare babbo?”. Guido: “Eh, loro gli ebrei e i cani non ce li vogliono. Eh, ognuno fa quello che gli pare Giosuè, eh. Là c’è un negozio, là, c’è un ferramenta no, loro per esempio non fanno entrare gli spagnoli e i cavalli eh, eh… e coso là, c’è un farmacista no: ieri ero con un mio amico, un cinese che c’ha un canguro, dico ‘Si può entrare?’, dice ‘No, qui i cinesi e i canguri non ce li vogliamo’. Eh, gli sono antipatici oh, che ti devo dire oh?!
È con questa varietà di dialoghi tristemente ironici che La vita è bella di Roberto Benigni ha conquistato il mondo. Il film descrive con dovizia di particolari la crudeltà dell’olocausto, mettendo in luce le espressioni storiche della deumanizzazione – che agiscono come strumenti di oppressione psicologica e sociale – utilizzate da gruppi potenti per umiliare e annientare gruppi considerati più deboli.
Deumanizzare significa percepire l’altro come “meno umano”, o meglio, non pienamente definito da tratti che sono esclusivi degli esseri umani. Tale fenomeno, espresso in maniera esplicita o subdola, ha principalmente la funzione di giustificare la violenza pianificata o commessa verso altri gruppi e legittimare lo status quo e la posizione ricoperta.
Ieri, 27 gennaio, si è celebrato il Giorno della Memoria, commemorazione che rinnova l’immensa ferita della Shoah, espressione estrema della distruttività umana. Una memoria importante in questo momento storico di disagio sociale e crisi economica, in cui si corre il rischio che odio, rabbia e frustrazione uniscano le persone nella ricerca del “capro espiatorio” su cui riversare la responsabilità. Dalla comprensione del passato possiamo imparare, per evitare di commettere gli stessi errori, discriminando le reali cause del problema e dunque, le soluzioni. Allora, determinante diviene il ruolo assunto dalla storia, in quanto memoria universale capace di orientarci al futuro, anche attraverso lo studio di quei processi che escludono l’altro (l’oppositore, il nemico, il diverso).
Nella storia della nostra specie pensare l’altro come essere incompleto, oggetto, animale, permette di compiere su di lui azioni inaccettabili in un contesto normale. L’uso di termini deumanizzanti costituisce un espediente fondamentale per chiunque intenda compiere azioni di violenza estrema verso altre persone o gruppi. Quando per interessi e ideologie si decide di voler sterminare un gruppo, quest’ultimo viene relegato allo stato animale, il quale costituisce l’alterità necessaria all’affermazione dell’identità umana. Le metafore animalistiche ed oggettivizzanti incidono sulla percezione della vittima, rendendo impercettibile il suo dolore e arrestando qualsiasi sentimento di empatia e compassione.
A tal riguardo, lo psicologo canadese Albert Bandura (1996), ha formulato il costrutto del disimpegno morale, secondo il quale, quando gli individui compiono delle azioni che contrastano gli standard etici interiorizzati, si attivano diverse forme di disimpegno morale, che rendono accettabili le condotte esercitate. Tra le molteplici forme ricordiamo: la giustificazione morale dei comportamenti negativi (guerra santa), l’attribuzione della responsabilità all’autorità, l’effettuare confronti vantaggiosi, minimizzare le conseguenze degli atti compiuti, incolpare le vittime di quanto accaduto.
Agli esperimenti condotti al termine della seconda guerra mondiale, seguono gli attuali sviluppi delle neuroscienze. Queste ultime, mediante tecniche di risonanza magnetica funzionale, studiano i correlati neuronali dei fenomeni psicosociali, rilevando l’attivazione di specifiche aree cerebrali. Le analisi hanno dimostrato che durante la visione di immagini di individui appartenenti a gruppi pesantemente marginalizzati (drogati o persone senza tetto), si riduce l’attivazione della corteccia mediale prefrontale, area del cervello che si attiva quando si pensa alle persone. In sostanza, la gente fatica di più a immaginare gli stati mentali di coloro che vengono deumanizzati (Harris e Fiske, 2007). Alla conoscenza del fenomeno dunque, dovrebbe accompagnarsi una strategia che preveda il contatto tra diversi gruppi, un incremento del senso di comune appartenenza alla specie umana e del sentimento di empatia, anche attraverso i media.
La vita è bella, pertanto, diviene un messaggio di speranza per chi sta soffrendo, un’esortazione a cercare dentro di sé la forza, anche nelle situazioni più atroci e drammatiche. Ci insegna che la felicità, a volte, è nel nostro modo di vedere la vita. Un esempio di superamento delle avversità attraverso l’immaginazione, che può generare voglia di vivere, mostrandoci bellezza anche dove non c’è.
Le immagini sono tratte dal film “La vita è bella” di Roberto Benigni