Siamo un po’ tutti cittadini di San Clemente

Tra interessi, inganni e colpi di scena, il romanzo di Gianni Spinelli è un gustoso e graffiante racconto di una saga familiare nell'iconica provincia del Belpaese

La cultura ha pagato e sta pagando il prezzo più alto alla pandemia. Lo capiamo di più quando un bel libro non ha favori o corsie preferenziali nella tv di stato. Restare al palo, in questo periodo, è un colpo mortale per le aspettative e il dovuto riconoscimento dell’autore, della casa editrice, per tanti potenziali autori che hanno lavorato sodo.

Intanto, non abbiamo alternative. Ci affidiamo a recensioni che privano l’autore del gusto del contatto, del confronto proprio con quanti hanno letto il libro o desiderano farlo. Vige il distanziamento fisico, gli assembramenti sono vietati. Siamo affidati all’esito del vaccino per tutti, la cui somministrazione è stata appena avviata.

Lo scrittore Gianni Spinelli

L’autore del libro è Gianni Spinelli. Il titolo: La scatola di cuoio. L’editore Fazi. Il successo che il libro sta registrando è il frutto dell’unanime consenso che sta ottenendo da tanti lettori. Al libro alcuni registi stanno guardando con attenzione per un adattamento teatrale e cinematografico.

I personaggi, la vicenda, il territorio, gli ambienti ben si prestano a rappresentazioni che possono dare una forte spinta alla lettura o alla più ampia fruizione di ciò che il libro descrive e narra. Il cuore dell’opera è il possesso di un’ingente eredità, accumulata negli anni. Anche l’usura ha la sua dolorosa parte. Ma c’è un problema: a chi donarla? A chi lasciarla in eredità?

Il suo possessore è un sedicente monaco cappuccino, don Pantaleo, che si fa chiamare il Provinciale. Tutto, evidentemente, con buona pace del voto di povertà. Ovviamente, don Pantaleo non ha eredi diretti, ma un piccolo esercito di nipoti e pronipoti sia diretti sia acquisiti. Tutti ovviamente interessatissimi. Se pensiamo che lo scenario è un paesino della Basilicata, San Clemente, è facile intuire come la vicenda si carichi della partecipazione morbosa e pettegola di una popolazione anziana che tutto osserva, tutto elabora, tutto amplifica e distorce nel passa parola.

Il patrimonio, come già detto, non è insignificante, tutt’altro. Il suo possessore è un personaggio misterioso, poco visibile e poco loquace. Il suo agire stride con la sua presunta vocazione. Anzi, i suoi comportamenti, la negano, specie quelli meno noti. Obtorto collo si affida alle cure della moglie di un suo nipote: Marta, donna Marta Fontiuzzi, tanto significativo è il ruolo che è capace di svolgere e di far capire di esercitare, all’interno e all’esterno. Zelante e devota, assiste lo zio e gestisce la “casona” fatta di tante stanze. Alcune sono strettamente personali e quindi off limits.

L’abitazione, per volontà della benefattrice Giulia Poti, signorina, senza parenti, fu legalmente donata al monaco per farne un’oasi di spiritualità. Un evidente, risaputo peccato di don Pantaleo, nella vasta gamma dei vizi capitali, è il peccato di gola, amante com’è della buona cucina. Ottima forchetta, si cimenta anche personalmente alla preparazione di cibi succulenti, primi fra tutti la pecora a cutturiddu. Ospiti alla sua mensa, i notabili del paese, a partire dal suo fido compare in affari immobiliari, il notaio Domenico Delilli.

Un rito che si ripeteva ogni sabato, fino alla morte, diciamo improvvisa, di don Pantaleo. Dai peccati di gola alla lussuria il passo è breve; ma, di tutto ciò, nulla trapela all’esterno. Donna Marta, con la fedelissima e versatile domestica Lina e suo marito Onofrio, fanno muro a difesa della “santità” del Provinciale che solo essi affermano.

Donna Marta, pur considerata “venale e falsa” dal monaco, eredita tutto, con usufrutto al marito, Giuseppe, e concreta riconoscenza a Lina e Onofrio. Un testamento che cambia la vita e lo status di Marta, pronta ad emulare in tutto, con pranzi e incontri, l’attività relazionale di don Pantaleo, anche diversificando gli interlocutori.

Ruoli che non si possono inventare né copiare. A ognuno il suo. Presto tutto finisce e donna Marta è chiamata a gestire da sola quella “casona“, “luogo ambiguo, di misfatti, di soprusi, di illegalità” perché, intanto, muore Giuseppe e Lina e Onofrio, stressati e vessati, alla fine sono cacciati. Evidentemente sapevano troppo e con i misteri non si scherza. Si crede eterna donna Marta, chiamata a regnare nel regno della perdizione. Tenta invano di essere accompagnata dalle nipoti, cinque aspiranti eredi, pronta a fare testamento in loro favore: Enrica, Carmela, Laura, Lucia (figlie del fratello Mario) e Margherita (figlia del fratello Ferdinando).

Ma queste non reggono allo stress, alle proibizioni, alla paura, ai fantasmi, agli spiriti, ai demoni che in quella “casona” avevano comodamente fissato la loro dimora anche con accadimenti tragici. Il colpo di scena giunge alla morte di donna Marta, perfida e falsa, causa del grave conflitto giudiziario che nasce dal testamento finale delle sue volontà.

Non diremo il perché. La lettura di ciò che Gianni Spinelli scrive, con accattivante semplicità, ma con forte suspence, con incredibile sorpresa, merita la più attenta e gustosa lettura. Dulcis in fundo, sed in cauda venenum. Tutti pensiamo solo al dolce, alla fine di una così intricata vicenda. Ma la vera sorpresa è nel veleno che sta nella coda. Con i soldi, le case, i beni degli altri non si scherza; non ci si approfitta; vanno rispettati. Miseri e ingordi. Nessuno potrà mai vedersene bene, se illecitamente presi.

San Clemente è un paese sperduto nel materano, anzi, è un paese inesistente. Nessuna carta geografica lo indica. Ma, ognuno deve fare un viaggio fino a quel paese: è dentro di noi. Potrà capire che a San Clemente ci potremmo essere proprio noi e scoprire come si può fare tanto male agli altri. Il vero valore non è nei soldi, nelle proprietà ma solo nelle persone.