Solo qualche “giga di piacere” per l’homo digitans

La contraffazione e l'esclusione di consenso da parte del partner, sono alcuni dei rischi della passione virtuale, favorita dalla pandemia e basata sull'uso dei social

“Come se stessi leggendo un libro che adoro immensamente… le sue parole sono distanti e lo spazio tra di esse è quasi infinito. È un posto che non appartiene al mondo fisico e dove esiste ogni cosa.” E’ quanto afferma Samantha – nome del sistema operativo di Her, film di Spike Jonze – pronta a colmare vuoti emotivi, affettivi e soprattutto l’incapacità di amare del protagonista, Theodore.

Sappiamo bene che l’avvento dell’era digitale, ha considerevolmente mutato il nostro modo di gestire e vivere le relazioni e la sessualità. L’homo digitans della società moderna, può utilizzare con estrema comodità qualsiasi mezzo tecnologico per soddisfare bisogni e ottenere vantaggi, in una dimensione nuova e concreta, che permette di rappresentare parti di sé e riscoprire aspetti che la quotidianità tende a soffocare o limitare. In tempo di pandemia, ad esempio, è stata garantita una nuova forma di adattamento, che ci ha permesso di restare connessi per sperimentare alternative forme di relazionalità e piacere.

“Quando inizi a frequentare qualcuno attraverso chat o social e sai che, probabilmente, non ci sarà un incontro reale, è facile sentirsi liberi di esprimere le proprie emozioni e fantasie in maniera molto più disinibita. Vengono meno le regole della morale e quei tabù che normalmente condizionano la relazione vis-à-vis”, spiega, Francesca, studentessa universitaria ventiquattrenne, durante un’intervista.

Si ha però, la sensazione che tali rapporti, facili da creare e facili da “eliminare”, siano pervasi non solo da una certa liquidità (Bauman, 2003) e quindi, da inconsistenza e superficialità, ma anche da una mancanza di confine, ovvero quel “misterioso distacco” che dovrebbe caratterizzare il rapporto con l’estraneo, soprattutto al fine di suscitarne l’interesse e il desiderio. Il termine latino de-siderio, significa letteralmente “avvertire la mancanza delle stelle”, la distanza, la lontananza di qualcosa a cui aspirare. Tale tematica è stata più volte affrontata dal famoso psicoanalista Massimo Recalcati (2013), secondo il quale, la dimensione dell’attesa e l’avvertimento della mancanza, sospingono alla ricerca del sogno e in sostanza, laddove non c’è assenza, non sembra poter esserci desiderio.

Questo discendere continuamente nel mondo social, più che nelle relazioni reali, potrebbe quindi, amplificare ansie sociali e mettere a rischio la capacità di desiderare. Irritabilità, calo del desiderio e altri problemi di relazione, sono solo alcuni dei sintomi di una tecnologia che, con le sue continue stimolazioni, provoca stanchezza e umore negativo. Fra un cellulare che squilla e un messaggio da leggere immediatamente, sembra esserci poco vero spazio per “l’altro”. In una società trasparente e iper-connessa, quindi, dove tutto viene reso molto chiaro e, talvolta, privo di fascino, sembriamo essere più vicini alla dimensione del bisogno, piuttosto che a quella del desiderio.

Un bisogno urgente che deve essere immediatamente soddisfatto. “Non sempre si ha voglia di conoscere l’altro. A volte, c’è solo il bisogno di sentirsi desiderati. Quando poi, si decide di passare all’incontro reale, nasce l’ansia di non essere all’altezza delle aspettative altrui e viceversa”, continua Francesca. L’incontro virtuale allora, favorisce l’utilizzo di strategie difensive che proteggono l’individuo da fragilità narcisistiche o insicurezze che potrebbero interessare, anche la sfera della sessualità.

Ci riferiamo al fenomeno del “sexting”, se pensiamo ad una passionalità senza contatto e presenza, un vero e proprio ossimoro, possibile da realizzarsi attraverso le nuove frontiere della modernità. Il termine deriva dalla crasi di sex (sesso) e texting (messaggiare) e consiste nell’invio e nella ricezione di testi, immagini, video dal contenuto sessualmente esplicito, tramite mezzi di comunicazione digitale, come chat, social network, videochiamate, email. Tale interazione, quando praticata con consapevolezza e controllo, permette di mettersi in discussione, affrontare timidezze e creare vissuti di intesa, novità e sperimentazione, soprattutto nel caso di adolescenti, ma anche di adulti. Il pericolo nasce, quando questa pratica diviene l’unico modo per entrare in contatto con la propria sessualità, o anche, nel caso in cui vengono messe in atto forme di manipolazione e sopraffazione che escludono il consenso dell’altro (ad esempio, il revenge porn).

Appare cambiata anche la fase del corteggiamento, che da gioco elettrizzante, si trasforma in “like tattico” o approccio maldestro. In chat, difatti, è più semplice raggiungere, in tempi brevi, una confidenza che sfocia in mancanza di rispetto, dimenticando di interagire con una persona, a cui dal vivo, difficilmente si parlerebbe nello stesso modo. La rivoluzione digitale è allora, una rivoluzione mentale, che ha portato il nostro cervello ad adattarsi alla costante stimolazione e velocità, senza considerare che l’essere umano possiede risorse attentive limitate. Diversi, in effetti, sono gli studi che hanno dimostrato quanto l’utilizzo spasmodico dello smartphone stia impattando negativamente sulla nostra memoria, attenzione e postura.

Lo smartphone sembra essere, quindi, il nuovo “oggetto transizionale” (D. Winnicott) che ci illude di non essere mai soli, limitando le possibilità di entrare in reale contatto con il nostro mondo interno e con gli altri. Ciò di cui ci priviamo è soprattutto il corpo e il suo distintivo linguaggio: il profumo, le movenze, gli sguardi e le espressioni di un volto che non potremo mai osservare nel dialogo sterile di una chat, per quanto essa, possa essere idealizzata.

Le relazioni virtuali, dunque, presentano caratteristiche positive, che potrebbero, tuttavia, ritorcersi contro, qualora non siano efficacemente gestite. Dovremmo essere maggiormente informati sui rischi, anche al fine di educare ad un corretto rapporto con la tecnologia, senza farci coinvolgere e senza fidarci troppo di “lei”. Ce lo dimostra bene, Theodore, sopra riportato, quando, nella scena finale del film, si scopre capace di sopportare la testa di una donna sulla sua spalla e attraverso l’incontro con la sua cara amica Amy, comprende il limite della coscienza autoreferenziale.

In alto,  il protagonista di “Her”, Theodore, in una scena del film di Spike Jonze. Nelle altre foto, alcuni frame della pellicola