L’immagine esiste in quanto è. Parla in quanto è. La parola serve, forse, a decodificare (a tentarvi, almeno), ad interpretare secondo rispettive soggettività. Nel caso della fonte autoriale, la parola può servire come identificazione di una genesi, di un parto di pensiero e di azione. Ma questo movimento originante è già tutto dentro l’immagine, nella sua estrema e persino inquietante possibilità di ipotesi offerta al campo visivo ed intellettivo di uno sguardo, ispirato o meno che sia.
La foto vive queste dinamiche appieno. Ogni foto. Esistono poi scelte: scatto e testo, immagine ed analisi, angolo e pensiero, attimo e fissità. La rivista Rest, no. La pubblicazione a cura di Fulvio Bortolozzo caldeggia e tesaurizza l’immagine e ne fa motivo editoriale pressoché unico, per una pubblicazione che, così, opta per la fruizione totale e totalizzante di ciò che il lettore (pardon, l’osservatore) vede, realizza, probabilmente concepisce. Quanto poi questo corrisponda all’effettivo ‘aver visto’ del fotografo stesso nel mentre esatto in cui ha eternizzato una questione che invece è ‘sempre’ figlia del tempo -o persino all’essenza della cosa, pur comunque nell’alterità della percezione- come si capirà e saprà, è quesito antico circa il senso e il destino della stessa arte fotografica. Nè mai ci attarderemo su questo, giacché non è il nostro pretto ambito di tentativi di conoscenza e comprensione.
Ma di sicuro possiamo con piacere passare in rassegna l’ultimo numero dell’interessante testata, Rest appunto. Rivista nazionale di fotografia: di fotografia e basta, potrebbe dirsi. Anche perché, come avverte la stessa redazione: “The visual perception is the first form of knowledge: istintive, pre-verbal”. La conoscenza vive, insomma, di una immediata percezione visiva, come tale istintiva, da donare poi al tempo, alla storia, alla mente, al verbo per la metabolizzazione adeguata. E il verbo è il pensiero: quel pensiero-parola, come si sa, all’origine di tutto per la tradizione occidentale. Ma intanto il verbo è preceduto dal silenzio antropico, dalla voce di quello stesso silenzio, dall’assenza a favor di armonia (armonia spaziale, geometrica, persino cromatica).
Sì, perché le immagini predilette -e dunque di volta in volta scelte, elette- da Bortolozzo (già docente all’Istituto europeo di Design di Torino) hanno quasi sempre questo minimo comune denominatore. Segno di una chiara e precisa scelta di contenitore e contenuto. Ossia, appunto, ambiti logistici e di ricerca in cui privilegiare un esito finalizzato come a calibrare l’essenziale, una probabile radice di senso. Quel senso che è chiaro all’autore della foto e che dunque non ha bisogno di parole, tantomeno le sue. Il godimento istintivo -poi come detto da elaborare- resta il codice istitutivo di questo lavoro. Un lavoro ed un’operazione culturale che contraddistinguono l’ottica (è proprio il caso di dire) editoriale della rivista e, di conseguenza, tutti gli inserimenti, numero per numero.
Nell’ultimo, assieme ad altri sette bravissimi fotografi ed artisti (Paolo Coltro, Maurizio Consentino, Massimiliano Glori, Marco Guidi, Lorella Mazzella, Fabio Morassutto), appare anche un coinvolgente percorso di ricerca a firma di Domenico Fioriello, architetto bitontino con la passione e l’acume per la fotografia di qualità. Laureato con lode in Composizione e Progettazione Urbana alla Facoltà di Architettura di Pescara, dopo un breve periodo di ricerca con l’università, si dedica esclusivamente all’attività professionale. Grazie all’interesse per la fotografia indaga spazi, architetture e paesaggi nei loro molteplici aspetti, per tematiche e ambiti specifici, osservando sia il contesto urbano sia quello rurale.
Da qui un’approfondita conoscenza del territorio comunale di Bitonto (e non solo). Il lavoro di Fioriello, dal titolo Periferia (Sud) urbana, è assolutamente in linea con il taglio della rivista e ciò non sorprende giacché l’itinerario del bitontino segue già certi ambiti e tragitti. Periferie dell’abbandono, estremi spigoli di confine, luoghi solitari, dimensioni di un altrove tuttavia non selvaggio ma abitato, vissuto, coi segni dell’umano. Palazzi figli di una qual certa inestetica dei decenni scorsi; auto solinghe nel bel mezzo di deserti vialoni, arsi al cemento; strutture variopinte proprio dove non diresti. Arriva così l’occhio di Fioriello, con le sue undici fotografie, cifra destinata ad ogni autore presente nell’indice della rivista. A guidare il nostro il principio di quella che può essere definita “serialità fotografica”, vale a dire il ritorno sui luoghi e sulle cose, come può essere ‘ritorno’ costante quello di Fioriello nei confronti della sua stessa città, Bitonto, ritratta in queste foto nelle sue a loro modo armoniche palazzine delle, appunto, periferie cittadine.
Un’auto spezza di rosso la visuale; i colori che poi tornano, in alcune ‘pittoresche’ costruzioni; muri e case, cancelli e case; quasi improbabili, eppur sorprendenti, assimilazioni tra ciò che trasmettono i rifiuti ‘speciali’ e tutto quanto c’è o residua attorno.
E poi suppellettili e vecchi arnesi casalinghi per strada, abbandonati e forse messi al bando, allontanando per sempre i ricordi di quel poco che sono stati, o di quel tanto, in compagnia degli uomini, gli uomini stessi che lasciano i rifiuti, uomini chissà, di sicuro non cittadini. Ed ecco che la foto si fa denuncia. Denuncia d’amore, di sguardo; denuncia civile. Serialità è però anche l’appuntamento con la presa in consegna approfondita di un ambito. La “serie” di foto dice questo approccio quasi sequenziale: lo spazio è al centro dell’indagine, in ogni visuale, secondo più suggestioni, a seconda di un “gioco” di sguardi che, se appare frazionato nelle differenti angolazioni, pure è unico, come unico è il lavoro, perché a quello stesso spazio fa riferimento. A quel che vi accade, a quel che incuriosisce quei medesimi sguardi. Sguardi acuti, sì.
Nelle immagini, gli scatti della serie “Periferia (Sud) urbana” di Domenico Fioriello, pubblicata da Rest