Presentato alla Festa del Cinema di Roma lo scorso ottobre Un ponte del nostro tempo, il lungometraggio del regista bitontino Raffaello Fusaro racconta per immagini (e per musica, grazie alla splendida colonna sonora di Danilo Rea) lo sforzo collettivo che ha permesso di costruire la “nave” che oggi naviga il Polcevera di Genova, lì dove c’era il viadotto che, nell’agosto del 2018 è crollato, causando la morte di 43 persone.
Unendo immagini di repertorio a girato originale, il docufilm, realizzato grazie al sostegno di Fincantieri e Fincantieri Infrastructure, che l’hanno promosso e sostenuto, racconta i lavori per il ponte cominciati l’11 marzo 2019, con il taglio della prima lamiera nello stabilimento Fincantieri di Valeggio sul Mincio e con l’innalzamento del primo impalcato, e terminato con l’ultimo varo del 28 aprile 2020. Nel racconto corale di questa impresa, si alternano le testimonianze degli operai al lavoro per mesi nel cantiere e quelle di chi quel ponte lo ha disegnato: Renzo Piano. Abbiamo chiesto a Raffaello Fusaro di parlarci del suo film e delle emozioni vissute durante la sua realizzazione.
Si sente sempre più spesso parlare di “modello Genova”. Con il tuo film cerchi di dare un significato diverso a questa locuzione, non semplicemente burocratico ma umano e collettivo. Cosa è per te il “modello Genova”?
Questo film documentario è un percorso cinematografico che racconta un riscatto. Si muove dal buio della tragedia verso la luce della ricostruzione, letteralmente. Fino ad un’alba in cui ho avuto la possibilità di attraversare interamente il ponte prima della riapertura. Ho capito fin da subito che si trattava di una storia collettiva, che andava raccontata. Non l’ho fatto in maniera cronologica e nemmeno didascalica. Forse la locuzione ‘film documentario’ non è proprio precisa, ma la usiamo per semplificazione. Il ponte è già di per sé una metafora, nelle fiabe, nella letteratura. Il ponte è sempre ciò che ci porta da qualche altra parte. In un paese che spesso cade a pezzi, raccontare qualcosa che invece viene costruito, con tempi record e con la volontà e il sacrificio di migliaia di lavoratori, senza incidenti sul lavoro, vuol dire raccontare un piccolo miracolo. La formula ‘modello Genova’ penso voglia dire questo: che prendendo ad esempio quello che è accaduto a Genova, il nostro paese può fare molto.
Come hai gestito la contraddizione che il nuovo ponte porta con sé, essendo sia il simbolo di un riscatto che la conseguenza inevitabile di una tragedia che c’è stata?
All’inizio del film ci sono delle parole di Renzo Piano molto significative. Lui dice, in una intervista molto lunga che mi ha rilasciato, che un ponte non può crollare, non ha nessun diritto di farlo. E racconta che questa ricostruzione è avvenuta tra due sentimenti opposti: il cordoglio per le vittime e l’orgoglio di poter creare qualcosa. Io ho cercato di avere molto rispetto per il dolore che c’era attorno a quell’opera e a quel luogo, ma è anche vero che io ho fatto un film sulla ricostruzione, non un film di denuncia. Non ho fatto un’indagine sulle cause che hanno portato a quel crollo, ma ho raccontato un’azione liberatrice. Credo che il passato, la tragedia, il lutto, se non vengono elaborati, non possano essere superati.
Come ha influito la pandemia sui lavori di ricostruzione e sul tuo lavoro per il film?
Questo cantiere non si è fermato davanti a due eventi enormi. Non si è fermato davanti a un’alluvione che ha messo in ginocchio Genova, che non avveniva con quella forza da almeno cinquant’anni. Poi c’è stata la pandemia. E neanche questo ha fermato il cantiere. Qualcuno potrebbe pensare ad un’imposizione dall’alto affinché i lavori non si fermassero. Io invece ho letto negli occhi di quei lavoratori il senso di responsabilità rispetto ad un compito da portare a termine. È ciò che ha tenuto insieme ingegneri, tecnici e operai.
Negli anni del boom economico, le industrie si resero conto di aver bisogno di un’immagine da proporre al pubblico. Per far questo ricorsero al cosiddetto “cinema industriale”, a cui alcuni dei più grandi registi di sempre, penso ad Ermanno Olmi, hanno dedicato parecchi anni della loro vita. Quei modelli sono stati un’ispirazione per te?
Certo che sì. L’archivio industriale dell’Eni contiene momenti di poesia irripetibili. In quegli anni si sono raggiunti dei livelli altissimi. Quando il committente, l’impresa, riesce anche a diventare fonte di cultura, a finanziare un progetto culturale, allora si può parlare davvero di un’impresa a tutto tondo. Io ho avuto la sensazione, quando ho visitato il cantiere per la prima volta, di trovarmi difronte alla costruzione di una cattedrale. Ad una cattedrale del mio tempo. Perciò quello che mi ha colpito maggiormente è stato il respiro collettivo di quella orchestra che ha lavorato alla sua costruzione, piuttosto che le storie singole, che comunque ci sono. Ti potrei racontare che c’è un ingegnere che ha avuto una bambina durante l’anno dei lavori e che praticamente non ha mai visto. O di un operaio che a Napoli sentiva il desiderio incredibile di partecipare alla ricostruzione, anche semplicemente stringendo un bullone.
Come è stato coinvolto Danilo Rea nel progetto e come avete lavorato sulla musica del film?
Danilo Rea, che è uno dei più grandi pianisti jazz italiani e del mondo, si è fatto strada nell’ambiente del jazz forte di una solidissima preparazione musicale da conservatorio. E poi è un musicista che ha collaborato con i più grandi artisti pop, da Mina a Renato Zero. Tutto questo lo rende un personaggio abbastanza unico. E le sue improvvisazioni sono uniche. Danilo è una persona dalle possibilità infinite. Lui ha accettato di suonare nella ‘radura della memoria’ dal vivo, sotto il ponte. In quel momento, era come se stesse suonando il ponte che lo sovrastava. Le emozioni che ci sono state, ma anche la pioggia che è scesa e il sereno che tornava, sono convogliate nella sua musica. Così io dopo, nel montaggio, mi sono fatto accompagnare per mano. Non capivo dove finiva il mio racconto e cominciava la sua musica.
Da regista e da artista quali emozioni ti suscita il nuovo ponte di Genova? Che tipo di iconografia rappresenta?
Quel ponte è la sintesi tra l’estrema complessità dal punto di vista ingegneristico, essendo un ponte senza tiranti, e l’assoluta semplicità. Lo stesso Renzo Piano è convinto che una cosa sia in grado di dimostrare la propria complessità proprio quando questa è semplice da vedere e da capire. Anche lui, come persona, racconta questo. È un uomo di estrema decifrabilità, chiarezza, limpidezza. E allo stesso tempo un maestro dell’architettura e dell’arte.
Quando e dove potremo vedere il film?
Ci sono delle trattative in corso, ma sono molto fiducioso che il pubblico possa vederlo presto. Sono molto contento di tutta l’attenzione e l’interesse dimostrati nei confronti di questo progetto.