La ripetizione è sempre contraria alla legge, si oppone alla forma simile e al contenuto equivalente della legge. Così scriveva il filosofo francese Gilles Deleuze nel suo celebre saggio Differenza e ripetizione. Proprio sulla ripetizione e sulla composizione basata su pattern si fonda la musica di Caterina Barbieri, ospite d’eccezione della trentacinquesima edizione di Time Zones – Sulla via delle musiche possibili, la storica rassegna barese dedicata ai suoni non convenzionali. La ripetizione propria dell’estasi computazionale della musicista bolognese esprime nello stesso tempo una singolarità che si oppone al generale, una universalità in opposizione all’individuale, l’eternità in opposizione alla permanenza. Così la ripetizione diviene trasgressione, pone in questione la legge, denunciandone il carattere nominale, a vantaggio di una realtà più profonda.
Una geometria musicale che agisce sulla percezione e sulla conoscenza, rivelando la continuità tra i piani del visibile e dell’invisibile e chiedendo a chi ascolta di operare un processo autonomo (l’unico in grado di condurre alla reale conoscenza delle cose) dei propri meccanismi percettivi. Ponendosi in contrasto con la logica “binaria” della musica occidentale, abituata a considerare il suono come qualcosa che nasce dall’assenza di esso, Caterina Barbieri guarda al proprio stile di composizione come alla possibilità di esplorare il cambiamento e la variazione a partire da un continuum organico. Se è vero che ogni elemento in questo universo è attraversato da una vibrazione sonora, non c’è da meravigliarsi che la musica possa imbrigliare la natura: fiori, alberi e animali.
La musica indiana e il pensiero sul quale questa si basa ha da sempre affascinato la giovane compositrice, che proprio sulla relazione tra la musica dell’India del nord e il minimalismo americano ha scritto la sua tesi di laurea. Senza “appropriarsi” dei ritmi e degli elementi sonori della musica indostana, Caterina Barbieri ha raccolto l’insegnamento di una filosofia per cui il suono è un mezzo di contemplazione e la musica ciò che viene “sottratto” alle vibrazioni del mondo per essere esplicitato (e non ciò che origina dal silenzio). La musica classica indiana prende il via da un’azione sottrattiva rispetto allo spettro ricchissimo del drone della tambura: un framework armonico ricavato per eliminazione da un idealistico pan armonico, da cui, secondo tale filosofia, tutto si genera e di cui tutto è permeato.
Per la teoria indiana esistono due tipi di suoni: uno consistente nella vibrazione dell’etere (anahata nada) e uno nella vibrazione dell’aria (ahata nada). Il primo, suono che non è prodotto da un gesto fisico e dunque non è assimilabile agli altri suoni udibili, è il principio vibrazionale non manifesto di tutta la creazione. Il secondo, invece, suono udibile prodotto da un’azione fisica, è soltanto un riflesso impreciso e scostante della corrispondente vibrazione dell’etere. La differente combinazione, in ordine ascendente o discendente, delle sette note indiane (“swara”) che compongono la scala diatonica, crea il “raga”, che è allo stesso tempo un concetto tecnico e teorico (essendo un’immagine astratta, spesso rappresentata in poesia, dhydnamantram, o nell’arte, rdgamdhi).
I raga sono concepiti come vere e proprie “personalità musicali”, non definibili attraverso esecuzioni immutabili e prescrizioni prestabilite affidate a spartiti scritti, ma tramite improvvisazioni che rendono i raga entità viventi, biologiche, in continua evoluzione. Questa idea di ricomposizione libera, ma disciplinata da formule melodiche e ritmiche entro un quadro armonico di riferimento, hanno profondamente influenzato i padri del minimalismo americano come La Monte Young e Terry Riley (entrambi allievi di Paṇḍit Prân Nath), contribuendo ad una nuova concezione di musica che lavora nella temporalità ciclica e ripetitiva.
Così anche per Caterina Barbieri i sintetizzatori analogici, producendo campi di elettricità continua, dove il suono scorre senza interruzioni, permettono di ripensare il modo in cui si approccia la composizione: non più un’operazione demiurgica, che crea dal nulla ciò che prima non esisteva, ma piuttosto la “sintonizzazione” rispetto ad un “ongoing sound field” che va reso selettivo. Un processo che non può prescindere dal feedback tra la tecnologia e il compositore che la utilizza: reverse engineering che ridefinisce le funzioni della tecnologia sonora. Così la sua musica diviene il mezzo attraverso il quale l’individuo può “accordarsi” rispetto a un ecosistema già esistente che si offre in molteplici possibilità di ricombinazione. Anche una nota isolata può esprimere un significato armonico in virtù della sua relazione con la tonica, che rimane impressa nella memoria uditiva di chi ascolta. Ogni suono lascia un’impressione nella mente e acquista significato per l’effetto cumulativo dei suoni precedenti.
Proprio nel lavoro di compositori come La Monte Young o Charlemagne Palestine (ospite nel 2018, insieme a Terry Riley, della manifestazione che quest’anno ha accolto Caterina Barbieri), l’armonica del suono come elemento musicale diviene una componente fondamentale, data soprattutto la sua dipendenza dalle condizioni spaziali che variano in ogni singolo luogo in cui viene eseguito un brano. Manifestandosi in modo diverso anche durante una performance, le armoniche sono il riflesso dell’identità di un suono in un dato momento e in un dato contesto. D’altronde, come già sosteneva Eliane Radigue, figura di riferimento per la stessa Barbieri, “i suoni hanno la loro personalità, che dà il senso del tempo che è loro necessario. Ci sono suoni che hanno bisogno di tempo per raccontare la loro verità e ci sono altri che invece sono un po’ più vivi, veloci”. Comporre questo tipo di musica vuol dire anche rispettare il tempo dei suoni. Lo stile “formulare” di Caterina Barbieri (così come di carattere formulare è il raga indiano) permette la creazione di un sistema linguistico le cui frasi sono rappresentate da pattern mnemonici pre-composti usati dalla musicista in libere associazioni.
L’idea che la musica, tramite l’uso di morfologie cicliche, possa esercitare un potere di trasformazione interiore in chi ascolta passa attraverso la creazione di processi olistici che coinvolgano sia il musicista che l’ascoltatore come soggetti attivi di un rito collettivo. In questo senso l’artista può quindi essere considerato un agente al servizio di un’attività generativa e allo stesso tempo un ascoltatore teso a recepire i feedback provenienti da fonti non direttamente dipendenti da sé (come accade nell’improvvisazione jazz e in quasi tutte le forme di collaborazione dal vivo, il musicista reagisce alla combinazione dei propri suoni con quelli di altri musicisti nello stesso momento). Per Caterina Barbieri quel rapporto è da intendersi tra lei e la macchina. Cresce e muta di pari passo con la sua musica, in grado di operare una connessione fra manifesto e non manifesto, uomo e cosmo, corpo e mente.
Se tutto ciò può suonare molto astratto, come qualcosa che risiede esclusivamente nell’impero della mente, un live come quello di Caterina Barbieri a Time Zones è in grado di mettere in evidenza la componente fisica e viscerale della sua musica. A differenza della musique concrète, la cui successione è giustificata da logiche esterne alla genesi naturale del materiale sonoro e mediate da un alto grado di intenzionalità autoriale ed intellettuale, la ecstatic computation (che è anche il nome del più recente album di Caterina Barbieri) nasce da un pensiero musicale di flusso, ispirato a logiche compositive che funzionano in divenire piuttosto che in retroazione.
Nella foto in alto, il concerto di Caterina Barbieri a Times Zones