La battaglia delle donne per il futuro del Villaggio Trieste

Con i fondi del progetto Urbis, i volontari del quartiere barese fondano l'associazione Filoxenia con un ambizioso programma di attività, tra cultura e solidarietà

Recupero della memoria e inclusione sociale sono il collante con cui unire il passato, che rischia di essere perduto, al futuro, abitato da nuove generazioni. In mezzo, il presente, che, con la cultura, lo spirito d’accoglienza, l’idea di comunità, rende possibile quel collegamento, rafforzando valori da custodire gelosamente e tenere uniti tra loro.

A rimanere isolato per anni è stato il Villaggio Trieste, un complesso di ventuno palazzine con dodici appartamenti ciascuno, realizzato nel 1956 nella zona tra lo stadio della Vittoria e la Fiera del Levante a Bari. Una porzione di città quasi dimenticata dai baresi e dalle amministrazioni che si sono susseguite negli anni, i cui abitanti hanno sviluppato un forte spirito di attaccamento alle proprie tradizioni.  

Oggi, grazie all’associazione Filoxenia, nata dall’entusiasmo e dalla volontà di riscatto di Caterina Germinario, Doris Rosati, Lucia Turi e Beatrice Cafagna, quattro donne che sono nate e hanno vissuto nel villaggio, la storia e i valori che hanno unito gli abitanti del quartiere sono tornati prepotentemente alla ribalta, collocandosi in un contesto differente rispetto al passato, non essendo pochi i cittadini che vengono ad abitare nel quartiere storicamente definito dei “greci e dei profughi”.

La manifestazione di inaugurazione dell’associazione Filoxenia

L’idea dell’associazione, vincitrice del bando Urbis, che permette a gruppi di cittadini di sviluppare progetti per favorire azioni socioculturaleducative, si attaglia perfettamente ai bisogni del villaggio. “E’ mancata a lungo l’idea di creare uno spazio di socialità -spiegano le fondatrici- e, così, abbiamo colto l’occasione per partecipare al bando. Mancando molti servizi; così è stato semplice creare il progetto. Abbiamo pensato a un doposcuola per bambini e ad attività per anziani, con l’obiettivo di salvaguardare le radici e tramandarle alle nuove generazioni”.

Oltre al tutoraggio scolastico, al supporto psicologico per le donne con l’arte terapia e la psicodinamica, altre proposte di Filoxenia sono concentrate proprio sulla memoria e la condivisione. “Con i ragazzi intervisteremo gli anziani del quartiere che racconteranno la loro storia con l’obiettivo di produrre un cortometraggio. E’ previsto, inoltre, il ‘Sabato e domenica del villaggio’ in cui coinvolgeremo le venti associazioni partner nell’organizzazione di eventi sui temi dell’infanzia, lo sport, la salute, i popoli del mediterraneo”, spiega Lucia. E aggiunge: “Stiamo cercando di fidelizzare i volontari, creando una banca del tempo: chiederemo la disponibilità delle persone del villaggio a mettersi a disposizione con le proprie abilità”.

Un’immagine del Villaggio Trieste a Bari

Il progetto, della durata di quindici mesi, sarebbe dovuto partire a marzo; ma poi la pandemia ha modificato i piani. Con la danza, il teatro per bambini e la musica si è svolto l’evento inaugurale di Filoxenia che, come ricordano le fondatrici, “significa proprio saper accettare il diverso, accogliere lo straniero, esprimendo quello che rappresenta il Villaggio Trieste. Il rischio che si corre, infatti, è perdere tutta la sua storia, la memoria e le radici”.

Come per altre zone di Bari, questo sta diventando un quartiere dormitorio: gran parte della vita degli abitanti si sviluppa nel centro città e questo allenta il senso di appartenenza al quartiere. Per questo le proposte dell’associazione rimarcano il bisogno di una presenza nel territorio. Solo le vicine piscine comunali rappresentano un luogo di incontro; la stessa sede di Filoxenia si trova in un locale all’interno dello stadio del nuoto, ma le attività si svolgeranno nel villaggio e nel parco don Tonino Bello.

Non è presente una scuola nei dintorni, dopo la chiusura di quella vicino alla chiesa di Sant’Enrico. I disservizi e il disinteresse dell’amministrazione pubblica hanno facilitato lo sviluppo di fenomeni deleteri come la devianza e lo spaccio. La presenza di un’associazione, perciò, può rivelarsi un presidio di civiltà, un luogo per alimentare pratiche virtuose. 

Storicamente il Villaggio Trieste è stato dimenticato dalle amministrazioni: essendo collocato in territorio demaniale non si comprendeva a chi ne competesse la cura. Anche l’ente che gestisce le case popolari (l’ex Iacp) si è disinteressato ai bisogni degli abitanti, che con le loro lotte sono riusciti ad ottenere molti risultati: “Siamo riusciti a far asfaltare le strade, sistemare l’illuminazione pubblica, ristrutturare gli stabili e far prendere sotto la responsabilità del comune l’impianto di illuminazione” spiega Caterina. 

il concerto organizzato per l’avvio delle attività di Filoxenia

Il villaggio non è stato mai pienamente valorizzato dalle istituzioni, rafforzando nei suoi abitanti la volontà di proteggere le proprie radici, contro il pregiudizio degli altri cittadini, che li reputavano usurpatori di posti di lavoro e di alloggi popolari. La storia del Villaggio Trieste aiuta a comprendere le complesse dinamiche che l’associazione intende ribaltare. “I nostri genitori, i nostri nonni e bisnonni, al termine della guerra furono rimpatriati dalle varie nazioni in cui si trovavano a causa della sconfitta dell’Italia -racconta Caterina, moglie di Mattia De Giosa, scomparso due anni fa e a cui è dedicato il progetto-. Il governo italiano, per pagare i danni di guerra, requisì tutte le proprietà di questi cittadini e costruì questo villaggio. Prima di vivere sotto un tetto, però, fu allestito un campo profughi obbligando queste persone a vivere in condizioni precarie.”

Si tratta di una vicenda molto particolare; riguarda persone che si sono ritrovate ad essere pedine nelle mani dei governi a causa della guerra, costrette a vivere un senso di smarrimento dato che molti provenivano dalla Grecia, dall’Istria, dalla Dalmazia, dall’Eritrea e dalla Turchia. Caterina continua: “I nostri genitori si sentivano come stranieri in terra propria. Hanno sofferto la sindrome dello sradicamento perché cacciati dalla loro patria natale, dove vivevano in condizioni più che dignitose, e giunti qui si sono ritrovati come stranieri in casa propria, vivendo un doppio senso del rifiuto. Questa situazione li ha portati a rimboccarsi le maniche, riuscendo a crearsi una propria posizione e ad occupare posti di rilievo in città”. Inoltre, restando chiuso in se stesso, il villaggio ha mantenuto salde le sue tradizioni: “Nelle proprie nazioni di appartenenza gli abitanti erano abituati ad avere rapporti interpersonali e affettivi con tutto il vicinato, e così si sono impegnati a costruire i primi giardini, cercando di mantenere le tradizione della loro patria d’origine, generando un vero e proprio miscuglio di usanze e abitudini in un clima di pacifica convivenza. Era abitudine avere porte e portoni aperti, i bambini hanno sempre giocato per strada sorvegliati dai vicini in un clima familiare”, spiega.

“Ciò che abbiamo vissuto come figli e nipoti è l’accoglienza, la condivisione e la libertà di accettare chiunque in maniera del tutto naturale, senza alcun tipo di sovrastrutture. Per noi è sempre stato normale giocare con bambini rom, dato che nelle vicinanze era presente un campo nomadi, instaurando rapporti di rispetto e di amicizia”, chiarisce Caterina. Il villaggio Trieste può definirsi il primo quartiere multietnico di Bari: in esso convivono più che pacificamente culture e tradizioni, accogliendo le diverse usanze popolari, festeggiando per esempio, in modo unico, due o tre volte nello stesso anno la Pasqua, considerando il diverso calendario della religione cristiana e ortodossa greca e russa. 

Il giardino intitolato a don Tonino Bello

Sono numerose le testimonianze di accoglienza, di un naturale processo interculturale. Per la prima volta a Bari si è celebrato un funerale di una donna musulmana all’interno di una chiesa, alla presenza dell’imam di Roma. Si tratta di pagine di storia quotidiana che incarnano concretamente lo spirito di fratellanza. Nonostante lontani dalle luci della ribalta cittadina, i residenti del Villaggio Trieste si sono sempre adoperati per quell’ecumenismo di cui si sente spesso parlare oggi. Il villaggio è stato il primo riparo per gli albanesi sbarcati a Bari nel 1991. Fuggendo dallo stadio Della Vittoria dove erano stati collocati, seppur in condizioni davvero precarie, molti hanno trovato famiglie che li hanno protetti e adottati, materialmente e moralmente. Si può certamente affermare che ogni nucleo familiare del villaggio ha accolto almeno un albanese all’interno della propria casa.

La vicenda dello sbarco degli albanesi a Bari apre altre pagine di storia che Caterina racconta brevemente: “I miei genitori avevano accolto due ragazzi, di cui uno sposato con due figlie in Albania. Sono stati aiutati a cercare un lavoro nel sud Italia e ad avere un futuro; ci sono casi in cui altre famiglie del villaggio hanno ospitato mamme con neonato a seguito”. Tutto ciò ha prodotto un legame affettivo molto forte con la famiglia ospitante che resta saldo ancora oggi.

Le fondatrici di Filoxenia ricordano molto bene gli eventi successivi allo sbarco della Vlora nel porto di Bari: “Anche la parrocchia di Sant’Enrico si adoperò aprendo le aule della vecchia scuola, adibita a dormitorio. Insieme ad altre persone abbiamo dato una mano concreta per la distribuzione dei pasti e ogni altro tipo di aiuto in quei giorni concitati.” Ma parte della storia del villaggio Trieste è legata anche a don Tonino Bello che, giungendo quotidianamente con la sua cinquecento rossa da Molfetta per aiutare e sostenere le centinaia di persone che scappavano dal regime comunista, si appoggiava alla chiesa di Sant’Enrico.

Filoxenia, quindi, intende tornare ad alimentare il seme dell’accoglienza che caratterizza il Villaggio Trieste; rappresenta una sfida alle ventate di sovranismo e alle spinte divisive. L’idea ispiratrice di Filoxenia è la negazione di ogni forma di autoritarismo, isolamento, chiusura all’altro, grazie a quattro donne che vogliono continuare a far rifiorire la vita e la speranza tra memoria e inclusione.

Nella foto in alto, Maria Beatrice Cafagna, segretaria di Filoxenia, Lucia Turi, presidente, e Caterina Germinario, vicepresidente