Se Europa e Cina, pur con molti problemi e il rischio persistente di nuovi focolai, sono uscite dalla fase critica dell’emergenza sanitaria, l’epidemia nel mondo sta raggiungendo la sua fase più acuta, con oltre 14 milioni di contagi e 600mila morti. Ma il dato più preoccupante è che l’epidemia sia ormai fuori controllo nell’intero continente americano, con le due principali potenze economiche, Stati Uniti e Brasile, da tre mesi in possesso del triste primato di contagi da coronavirus nel mondo, e apparentemente incapaci di fermarne la crescita.
Una domanda sorge spontanea. Com’è possibile che il paese dotato dei più avanzati istituti di ricerca, con il PIL pari a un quarto dell’intera economia globale – il paese in cui la genetica batterica e la virologia si sono affermate come discipline indipendenti, grazie anche agli studi dei ricercatori italiani Salvatore Luria e Renato Dulbecco, premi Nobel per la medicina rispettivamente nel 1969 e 1975 – com’è possibile che questo paese stia perdendo la battaglia contro il Covid-19?
Molti commentatori hanno indicato come i motivi di tale fallimento siano radicati nella cultura americana, una cultura che ha i suoi pilastri nelle libertà inviolabili dell’individuo, ossessivamente geloso dei propri diritti e tendenzialmente scettico nei confronti del governo. Si sono viste persone rispondere con rabbia, e in alcuni casi con violenza, alla richiesta di indossare la mascherina per entrare in un supermercato, o protestare con le armi in pugno contro le misure adottate da governi locali.
Ma il problema principale non è rappresentato tanto dai singoli episodi di protesta, talvolta spettacolari come quello dell’aprile scorso nel Michigan quando un gruppo di dimostranti armati di fucili automatici ha occupato il parlamento statale, quanto lo è dal comportamento del governo federale, dal sostegno che quei dimostranti hanno ricevuto dal presidente. “Liberate Michigan”, “Liberate Minnesota”, “Liberate Virginia” twittava Trump all’indomani delle manifestazioni di protesta in stati a guida democratica, per poi ignorare con la sua solita arroganza i consigli e gli ammonimenti degli esperti, tra i quali l’eminente virologo Anthony Fauci, contro una riapertura affrettata e sconsiderata che avrebbe potuto provocare una recrudescenza dei contagi, cioè quello che sta succedendo oggi.
“Non era una questione della nostra cultura, era una questione della nostra leadership” ha scritto sul New York Times [7 luglio] Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia 2008, spiegando come quelle proteste non fossero affatto spontanee, ma spesso organizzate e coordinate da attivisti politici legati alla campagna di Trump. Anche la fretta nel riaprire gli stati della cosiddetta “sunbelt”, le popolose regioni del sud dove Trump ha la sua base elettorale, secondo l’economista, rispondeva più alla volontà dei governatori repubblicani di assecondare la strategia politica del presidente che a una reale richiesta della popolazione: “La spinta principale a favore della riapertura era dettata dal desiderio del presidente di ottenere una crescita dei livelli occupazionali, e di mantenere tale crescita almeno fino a novembre, in modo da poter fare quello che più ama: vantarsi dei successi in campo economico.”
Perché, quindi, Trump avrebbe continuato a rifiutarsi di indossare la mascherina ed evitato di incoraggiare la popolazione a farlo? Dopo tutto l’uso generalizzato delle mascherine avrebbe potuto limitare le infezioni senza rappresentare una minaccia per l’occupazione. La risposta data dal brillante economista è solo apparentemente banale: da una parte la vanità di Trump, il timore che indossare una mascherina potrebbe farlo sembrare sciocco, o potrebbe sciupargli il trucco di cui fa regolarmente uso, dall’altra perché le mascherine avrebbero ricordato alla gente che l’epidemia non era ancora sotto controllo: fatto potenzialmente imbarazzante per la sua amministrazione. Ma il cinico piano del presidente, “la volontà di scambiare morti per posti di lavoro e benefici politici”, secondo Krugman è risultato un boomerang.
Perché la riapertura ha sì prodotto una sorprendente crescita nei livelli di occupazione a maggio e inizio giugno, quando circa un terzo dei lavoratori licenziati a causa della pandemia è stato riassunto. Ma varie fonti indicano che, nelle ultime tre settimane, la crescita ha subito un brusco rallentamento, e la tendenza si è addirittura invertita negli stati più colpiti dalla recrudescenza del contagio, mentre la fiducia degli americani in Trump, e la sua posizione nei sondaggi elettorali, appaiono in costante declino.
“Il punto – concludeva Krugman – è che la sconfitta americana per mano del coronavirus non è avvenuta per mancanza di risorse economiche o scientifiche, o perché la nazione nel suo insieme non è stata in grado di rispondere. È avvenuta perché Trump e il suo entourage hanno deciso che era nel loro interesse politico lasciar scatenare il virus”.
Qualcosa di molto simile è avvenuto in Brasile, il cui presidente è un ammiratore e un sostenitore incondizionato di Trump, come del resto lo sono, in Italia, i segretari della Lega e di Fratelli d’Italia. E c’è da chiedersi come sarebbero andate le cose da noi se l’estate scorsa il senatore Salvini non avesse deciso di staccare la spina al governo, se si fosse trovato a gestire in prima persona, come ministro degli interni e vicepresidente del governo, l’emergenza sanitaria. Quanto più spazio e influenza avrebbero avuto forme di protesta come quelle dei cosiddetti gilet arancioni e di personaggi da commedia dell’arte come il generale Pappalardo? E quanti più morti avremmo avuto?
Lo scetticismo (se non un’ostilità vera e propria) verso la scienza è proprio di Trump e dei leader nazional populisti. Essi hanno dimostrato una profonda inadeguatezza a governare la pandemia, conducendo i loro paesi in una crisi senza precedenti, di cui è difficile prevedere gli sviluppi, e creando una frattura nella comunità scientifica internazionale con l’uscita dall’OMS (attuata formalmente da parte degli USA, per ora solo minacciata dal Brasile). Eppure solidarietà e cooperazione rimangono requisiti essenziali per sconfiggere il nemico invisibile, privo di colori politici, che l’umanità si trova oggi a fronteggiare.
In alto, un’immagine di Donald Trump