Dall’università al fronte del coronavirus

Giacomo Tullo, bitontino, e Gianluigi Tommaso Miscioscia, di Corato, raccontano la loro difficile esperienza di lavoro in terapia intensiva al Policlinico di Bari

L’arrivo del coronavirus ha messo a durissima prova il sistema sanitario nazionale: dalla Lombardia alla Sicilia, un’emergenza come non si era mai vista nella storia della Repubblica, con un numero impressionante di contagi e di vite falciate.

Per far fronte alla situazione, già ai primi di marzo, quando la battaglia contro il virus stava entrando nella fase più cruenta, il governo approvava un piano straordinario di assunzioni per medici, infermieri e operatori sanitari.

Il provvedimento prevedeva la possibilità di reclutare professionisti, compresi dottori specializzandi iscritti al penultimo e ultimo anno, e di richiamare in servizio quelli in pensione, affidando loro incarichi di lavoro autonomo, per la durata massima di 6 mesi, prorogabili a seconda del perdurare dell’emergenza.

Una vera e propria “chiamata alle armi”, presto accolta da tantissimi neolaureati e specializzandi, che attendevano il momento opportuno per cominciare a lavorare, ma che certo non immaginavano di dover compiere i primi passi in una situazione così drammatica. 

Il Policlinico di Bari, come molti altri ospedali, ha lanciato, lo scorso 14 marzo, un avviso per l’assunzione immediata di collaboratori sanitari, a cui hanno risposto centinaia di giovani neolaureati.“Ho presentato anch’io la mia candidatura. Ma in graduatoria c’erano trecento colleghi prima di me. In realtà, moltissimi hanno rinunciato e, così, mi sono ritrovato tra coloro che sono stati assunti”, racconta Giacomo Tullo.

La seduta di laurea di Giacomo Tullo all’università di Potenza

Bitontino, ventiduenne, Giacomo è tra i numerosi neolaureati che stanno vivendo la loro prima esperienza in corsia in questi giorni di emergenza. Soltanto cinque mesi fa, nel novembre 2019, si è laureato in Infermieristica a Potenza, sede distaccata dell’università cattolica del Sacro Cuore di Roma. In seguito, ha scelto di perfezionare i suoi studi a Campobasso, all’università del Molise, per poi ritrovarsi catapultato all’improvviso tra i corridoi e le sale dell’ospedale.

“Ho cominciato a lavorare lo scorso 7 aprile, insieme ad altri 149 colleghi, con profili diversi. Sono stato assegnato al reparto di terapia intensiva, l’epicentro dell’emergenza. Un’esperienza per certi versi surreale, ma che ci sta sicuramente formando molto”, spiega Giacomo.

“Avendo frequentato, durante il percorso di laurea, reparti di rianimazione e terapie intensive, mi ritenevo abbastanza preparato ad affrontare le varie problematiche e difficoltà di trattamento dei pazienti più critici -spiega Gianluigi Tommaso Miscioscia, suo collega-; ma mi sono accorto quanto sia difficile e complesso lavorare tante ore indossando tutto l’armamentario necessario. Il nostro unico desiderio, in quei momenti, è poter prendere una boccata d’aria il prima possibile”.

Anche Gianluigi, 23 anni di Corato, con una laurea in Infermieristica conseguita all’Università di Bari, è tra i giovanissimi infermieri arruolati dall’ospedale del capoluogo per fronteggiare l’epidemia. 

È certo un esame impegnativo quello che stanno affrontando questi giovani professionisti, per l’intensità, la pericolosità e la durata del lavoro, ben oltre l’ordinario. Un grande stress non solo fisico ma anche mentale a cui sono sottoposti tutti gli operatori sanitari, pronti a rischiare sulla propria pelle per salvare quante più vite possibili. E, nonostante, proprio nel settore ospedaliero barese si sia registrata, nelle ultime settimane, una percentuale di assenze dal lavoro ben più alta rispetto al solito.

Gianluigi Tommaso Miscioscia pronto ad entrare in reparto

Lo scorso 26 marzo, ad esempio, risultavano assenti per malattia 185 infermieri, 74 medici e 69 operatori socio-sanitari, per un totale di 298 persone. “Parliamo di «malattia», quindi dal conto sono escluse tutte le assenze dal servizio per altri motivi, compresi i permessi che spettano al lavoratore a vario titolo, ad esempio congedi parentali e legge 104, con i quali il totale degli assenti arriverebbe a 607 su un totale di poco meno di 4mila addetti. E con un tasso di assenza che supera di almeno 5 punti percentuali quello medio registrato nel marzo del 2019: vuol dire circa 200 persone in più assenti dal lavoro”, aveva reso noto La Gazzetta del Mezzogiorno.

Ciò che spingerebbe molti ad assentarsi, sarebbe la carenza di dispositivi di protezione individuale, fondamentali per tutelare la salute di medici ed infermieri, esposti più degli altri al rischio di contagio.

“La situazione è drammatica. Sapevo a cosa sarei andato incontro in quel reparto, ma nessuna previsione –chiarisce Giacomo– può coincidere con la realtà osservata con i propri occhi. I pazienti affetti da COVID-19 arrivano da noi già intubati e, dunque, non sono coscienti; solo alcuni sono lucidi. Nonostante la drammaticità delle immagini e delle situazioni a cui si assiste, dobbiamo rimanere concentrati sul nostro lavoro”. 

“Ho scelto di essere infermiere, assumendomi tutte le conseguenze di una tale scelta. Non mi è concesso di farmi trovare impreparato in momenti così difficili. Nonostante medici e infermieri, in queste ultime settimane, vengano definiti ‘eroi’, in realtà siamo dei semplici esseri umani, che provano paure e ansie come tutti. Ma cerchiamo di svolgere il nostro lavoro al meglio”, aggiunge Gianluigi.

Per tutelare la salute dei propri cari, i due giovani professionisti hanno deciso di lasciare momentaneamente le proprie dimore per andare a vivere, insieme, in una casa vicina al Policlinico. Svolgono turni di sette ore, a stretto contatto con i pazienti affetti dal virus, e utilizzano una sala attigua per il cambio delle mascherine. “Ciò perché questi fondamentali dispositivi di sicurezza sono efficaci solo per alcune ore e cambiarli serve a non mettere a repentaglio la salute”, chiariscono. 

“Non è stato facile allontanarmi dalla famiglia e, in generale, mi ha colpito molto la scelta dei colleghi che, come me, hanno rinunciato ai propri affetti per isolarsi e affrontare al meglio l’emergenza. Sino ad ora quello che più mi pesa è la mancanza d’aria, l’affaticamento fisico e il dolore sul volto causato dalla mascherina. Nonostante queste difficoltà cerchiamo di rimanere sempre concentrati”, afferma Gianluigi. 

Lavorare in corsia, ai tempi del coronavirus, non è certo semplice: sono tanti i disagi e i pericoli che si è costretti a sopportare per cercare di svolgere il proprio mestiere nel migliore dei modi e per evitare che un nemico tanto minuscolo quanto potente provochi ulteriori danni. Specialmente se si è giovani, con ancora tanto da imparare ma con una voglia smisurata di mettersi alla prova.

“Abbiamo imparato molto in questi primi giorni. Nonostante tutto, in futuro mi piacerebbe continuare a lavorare nell’area critica degli ospedali, perché impari ad apprezzare davvero l’umanità delle persone che sei chiamato ad assistere e l’adrenalina ti spinge a fare sempre meglio”, conclude Giacomo.

Nella foto in alto, Gianluigi Tommaso Miscioscia e Giacomo Tullo