L’Ospedale Soave di Codogno è un edificio neoclassico, costruito tra il 1779 e il 1781 su progetto di Carlo Felice Soave. È il monumento più noto del comune divenuto luogo simbolo dell’emergenza sanitaria. Se Pisa ha la sua torre, Roma il Colosseo, Firenze la cupola e Milano la Madonnina, Codogno ha l’ospedale. Cercate notizie sulla città di residenza del cosiddetto paziente numero uno e su Wikipedia troverete una sola foto: quella dell’Ospedale Soave. Ma perché un importante architetto lombardo del XVIII secolo (suo è il progetto della nuova facciata del Duomo di Milano) si occupò di erigere un così grande e bell’ospedale in un paesino che, nonostante la fiorente economia legata all’industria casearia, non brillava certo per le sue architetture?
Il motivo è probabilmente legato alle frequenti pestilenze che, in modo documentato a partire dalla fine del XV secolo e quasi senza soluzione di continuità, affliggevano il borgo principale della bassa lodigiana decimandone la popolazione. La sequenza è impressionante: l’intero decennio tra il 1475 e il 1486, poi ancora nel 1516, 1569, 1575, 1630, 1639. Epidemie e pandemie, ovviamente, colpivano l’intera regione e il resto della penisola, ma a Codogno avevano effetti particolarmente devastanti e prolungati nel tempo, rendendo necessario un presidio ospedaliero permanente. Ed è così che, verso la fine del Settecento, quando Codogno visse il suo grande sviluppo economico e commerciale divenendo il terzo centro più importante del milanese dopo Monza e Lodi, un ricco benefattore anonimo elargì una grande somma di denaro per l’edificazione di un nuovo nosocomio fuori dal centro abitato.
La propensione di Codogno a subire in modo paradigmatico gli effetti di un’epidemia, che in passato ha nutrito superstizioni e false credenze, può risiedere nella sua particolare collocazione geografica, al centro della pianura Padana, luogo di transito per eccellenza. Se si traccia una linea orizzontale da Torino a Venezia e una verticale da Bergamo a La Spezia, si vedrà che il loro punto d’incontro coincide con il territorio comunale di Codogno: crocevia di importanti vie di comunicazione, oggi come cinque secoli fa, vie percorse da eserciti d’oltralpe o da pacifica e laboriosa umanità. Di questa esulcerante propensione, come una cicatrice nel tessuto urbano, è testimonianza l’Ospedale Soave.
Più volte ristrutturato e ampliato per adattarlo alle nuove esigenze, l’ospedale sarebbe rimasto in funzione fino al 1942, svolgendo un ruolo importante per tutta la regione durante la prima guerra mondiale e la grande epidemia “spagnola” del 1918. Nell’ultimo dopoguerra venne acquistato da una grande industria alimentare che utilizzò i dimessi locali per circa vent’anni, e dopo un periodo d’abbandono venne riscattato dal Comune di Codogno. Oggi l’edificio, scrupolosamente restaurato e sottoposto all’interno a un completo rinnovamento, ospita in un’ala la biblioteca civica, nell’altra uno spazio espositivo polivalente: pregevole esempio di riqualificazione di edificio storico, teso a valorizzarne il ruolo socio-culturale.
A cinquanta metri dal Soave sorge il nuovo Ospedale Civico di Codogno, quattro volte più grande del suo illustre predecessore e dotato di strutture all’avanguardia: è la frontiera italiana del coronavirus. Qui, da due settimane, combattono in prima linea medici e infermieri, senza sapere la sera se potranno essere operativi la mattina. Sono stati oggetto di critiche, e perfino di un’inchiesta da parte della Procura di Lodi, ma è in gran parte da loro che dipende l’esito della battaglia contro il nemico invisibile che ha portato il Paese a livelli inediti d’emergenza.