Tornano Mimmo Mancini e Paolo De Vita con un tema ormai fortunato e caro alla storiografia (specie di inchiesta o revisione) e, come pare, anche al teatro, alla narrazione, alle arti visive. Ci riferiamo al brigantaggio, in particolar modo a quello postunitario, riferito cioè al periodo successivo al conseguimento (non poco violento e coercitivo) dell’unificazione del paese attraverso l’estensione del dominio dei Savoia nelle terre del Regno che era stato Borbone.
Un argomento, questo, negli ultimi anni assai coltivato e seguito a livello editoriale, anche in virtù di un approssimarsi al fenomeno in chiave positiva o, comunque, giustificante. Quel che prima non accadeva, eccezion fatta per alcuni pionieristici studi. Si pensi al fondamentale lavoro svolto da Franco Molfese, storico e parlamentare del Pci, negli anni ’70 per Feltrinelli, nel solco della spiegazione già gramsciana del fenomeno. Molfese non giustificava e non aveva bisogno di farlo: si limitava a spiegare, con piene garanzie scientifiche, il contesto. Oppure si pensi anche agli studi, in ben altra area ideologica, condotti da Carlo Alianello.
Mancini e De Vita portano a teatro tutte queste tematiche con lo spettacolo Non chiamateli Briganti, per la regia di Marcello Cotugno. Dopo la prima nazionale di un anno fa a Bitonto e tante repliche in diverse zone (persino in Libano), ecco ora i nostri a Bari, al Teatro Abeliano, oggi sabato 29 febbraio (ore 21) e domenica 1 marzo (alle 18). Un’opera, quella coi due mattatori al centro della scena, in cui la narrazione del tempo storico abbraccia a pieno titolo la psicologia prettamente umana degli eventi stessi, visti nella chiave delle memorie personali, delle vicende individuali o familiari (spesso anche maccheroniche) dietro il corso degli accadimenti della “grande storia”.
Il bitontino prof. Nicola Pice, docente di materie letterarie e storico, già intervenuto più di un anno fa ad un dibattito dedicato al tema e al lavoro del trio Mancini-De Vita-Cotugno, ha elaborato cinque buone ragioni per andare a teatro a vedere Non chiamateli Briganti. “La prima: riscoprire il valore della memoria, ricordando con Milan Kundera che per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture, la loro storia. La seconda attiene al ripensare a quella tragicomica attitudine al trasformismo politico, ideologico e sociale che da sempre contraddistingue il popolo italiano”, spiega Pice. “La terza: cogliere l’ironia e il disincanto di una storia che parla di noi, anche se la vicenda ci conduce agli anni 1859-1863, agli anni del trapasso dal regno borbonico alla Unità d’Italia, con protagonisti due fratelli pugliesi, Carlo e Cosimo Capitoni, uno contadino, l’altro pastore, accusati ingiustamente di un furto di pecore e quindi costretti a darsi alla macchia, divenendo briganti per forza e non per vocazione, poi garibaldini inconsapevoli, poi ancora altro. La quarta: lasciarsi afferrare dal pensiero
narrativo del testo recitato che si traduce in un discorso narrativo che rende possibile la riflessione, innesta un processo interattivo tra scena e platea e dà forma ad un vissuto umano comunicato con una narrazione pregna di una connotazione emotiva. La quinta: la straordinaria coppia degli attori, poliedrici e intensi, che rivestono di umanità i loro personaggi col precipuo intento di divertire rivelando (o svelando?) la realtà storica e portare il pubblico a ricostruire uno spaccato della questione meridionale su cui non si azzarda una lettura univoca e men che meno un giudizio ingenuo”, prosegue il professore. Per concludere: “Come un cunto, l’arcaica forma di racconto in dialetto del cantastorie che narra un’epopea di vinti, di uomini braccati e randagi, uomini ribelli perché capaci di reagire dinanzi ad una miseria che pietrifica ed ischeletrisce”.
Tornando alla storia del brigantaggio, infine, l’opera ha anche il merito di ricordarci come questo fenomeno esistesse già prima dell’arrivo di Garibaldi al Sud. Ma ne sarebbe poi nato uno più forte e dalle mille sfaccettature (sociale da una parte e legittimista dall’altro) dopo. Il lavoro teatrale si sforza di delineare questi diversi passaggi, coi Borbone che dapprima combattono i briganti e poi se ne servono in chiave revanscista.
Ma raccontata è anche la disillusione garibaldina con al centro la questione della “terra”. Passaggi che chi scrive, assieme allo storico Valentino Romano (ma da questi preceduto in qualità e valore di impegno, data l’esperienza decennale di Romano su queste tematiche), ha contribuito a collocare adeguatamente nell’ambito del testo. Quanto allo spettacolo del weekend all’Abeliano, maggiori informazioni sul portale www.nonchiamatelibriganti.it (o alla pagina fb NonChiamateliBriganti). Biglietti online su www.vivaticket.it/ita/event/non-chiamateli-briganti/137820(botteghino teatro Abeliano: 080.5427678).Lo spettacolo è in cartellone anche per la prossima stagione 2020/21 al teatro La Cometa di Roma.