“In Mascoli l’elemento che identifica lo schema di rappresentazione adottato con la propria, personale cifra stilistica è l’archetipo di una condizione artistica più generale, già preannunciata dalla Pop Art e dal Nouveau Réalisme nel Novecento, ma diventata tipica, nel parossistico dilagare della comunicazione mediatica, della nostra epoca, per cui nulla può più darsi al di fuori di esso. Non esiste più l’originalità, e se anche ci fosse, probabilmente non servirebbe a nulla”.
Così Vittorio Sgarbi nel testo critico di Vision, mostra pittorica del giovane artista Vincenzo Mascoli. Da opinionista e disturbatore di mestiere, Sgarbi non ha peli sulla lingua. Chiunque, prima o poi, è messo alla berlina dalle sue esternazioni, alle volte iperboliche e colorite, altre ancora aggressive e offensive. Secondo alcuni, volgari. Fin troppo formulare è il suo insulto pret-à-porter “capra”, ripetuto all’infinito fino a ché l’aggredito non cede.
Il punto è questo. Il livellamento del gusto e l’appiattimento del linguaggio, segnalati per primi dal movimento dadaista, hanno attraversato, in maniera trasversale, gran parte dell’arte del primo e del secondo Novecento. Esponendo una ruota di bicicletta o un orinatoio (il celebre Fontana), cos’altro faceva Marcel Duchamp se non denunciare, in modo paradossale, l’asservimento dell’oggetto alla sua funzione? Se il processo di mercificazione integrale degli oggetti pretende di definirne la bellezza, allora qualunque oggetto comune può essere defunzionalizzato come oggetto d’uso e rifunzionalizzato come opera d’arte.
Questo stile provocatorio e dissacrante nei confronti della tradizione, assieme ad una commistione esemplare tra parola e immagine, marketing e vita quotidiana, costituisce la cifra più autentica dei lavori di Vincenzo Mascoli, esposti in una personale a Open, in viale Montenero, a Milano. Ben trenta opere, raccolte sotto il titolo emblematico Vision: un lavoro davvero raffinato che sperimenta stili del passato reinterpretati alla luce dei fatti di cronaca sociale e politica contemporanei.
Abbiamo incontrato Mascoli a Corato, dove vive e dirige il teatro comunale, in una fredda mattinata di metà gennaio. Per comprendere meglio il senso della sua interessante e originale avventura creativa, gli abbiamo rivolto una serie di domande: l’artista con ampiezza e profondità di argomentazione, unita ad una rara capacità di analisi introspettiva, ci ha svelato il significato più profondo e complesso del suo lavoro.
Come ti sei avvicinato all’arte e alla pittura?
Fin da quando ero bambino mi divertivo a realizzare disegni e scarabocchi su semplici fogli di carta, ma nulla lasciava presagire che un giorno avrei potuto vivere dei proventi di questa mia passione. Dopo il diploma all’istituto d’arte di Corato, mi sono laureato all’accademia di Belle Arti di Bari, conseguendo una specializzazione in scenografia e pittura. La prima mi ha permesso di esprimere una concezione dello spazio assolutamente nuova, in cui l’opera si espande nella superficie che occupa; dalla seconda, invece, ho desunto utili spunti per la realizzazione di un’opera dal punto di vista materiale, nella sua lenta e articolata produzione artigianale. Non saprei dire esattamente cos’è l’arte, ma sento che c’è.
Una delle caratteristiche peculiari del tuo lavoro sta nella pluralità delle tecniche utilizzate…
Sì, mi servo di una tecnica di realizzazione molto certosina, applicando sulla tavola acrilici, smalti, pastelli, penne, spatole, gessi, silicone. Oltre a dipinti su tela, realizzo anche manichini, abbozzo alcuni schizzi su pannelli, perfino le pagine dei giornali sono un buon supporto su cui mettermi all’opera. Grazie a una borsa di studio, intitolata a Franco Zeffirelli, nel 2008 mi sono trasferito, per alcuni mesi, a New York. È lì che ho potuto guadagnarmi da vivere reinventandomi: dipingevo i volti della gente che passava per strada e, successivamente, tramite facebook ricevevo molti apprezzamenti. Una piccola goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso della mia arte, esibita in giro nei viaggi successivi che da lì in poi avrei intrapreso.
Qual è lo sfondo storico e culturale da cui trai ispirazione?
Negli ultimi anni ho fatto mia, reinterpretandola, la lezione dei grandi maestri del Novecento. Da Duchamp a Warhol, infatti, resta l’assunto che qualsiasi oggetto può essere considerato opera d’arte, con l’ovvia conseguenza che niente è arte. L’artista, allora come oggi, non è più colui che sa produrre arte, bensì colui che sa proporre nuovi significati. L’idea di immettere all’interno dell’opera pittorica elementi “trovati” che fanno parte della vita quotidiana, il gusto per la citazione, la messa in primo piano dell’“uomo comune”, sono alcuni corollari della pop art che hanno lasciato una traccia in me. E, non ultimo, dai miei lavori trasuda un misto di spaesamento e ammirazione per il linguaggio, invasivo e potente, del consumismo e della pubblicità.
C’è una modalità espressiva che prediligi?
Amo molto realizzare collage, ritagliando immagini da giornali, riviste e manifesti che recano la data di pubblicazione. Custodisco, poi, il tutto in archivio: metaforicamente un piccolo scrigno della memoria che ripercorre, come i fotogrammi di una pellicola, i ricordi più significativi. Anche i ritratti, rispettosi del canone tradizionale, non sono particolarmente ricercati. I social network, Instagram soprattutto, amplificano il gioco di raddoppiamento e straniamento della realtà che si manifesta nella sua quotidianità anche attraverso una continua contaminazione tra parola e immagine. Espressione dell’identità che un’artista non dovrebbe mai cessare di rivendicare.
Dev’esserci una precisa idea di comunicazione dietro tutto questo… giusto?
Ogni singola opera è come una microstoria inscritta in una cornice molto più eterogenea. Secondo la nota tecnica narrativa del racconto nel racconto. Una biografia che rinvia ad un’altra esperienza. In questo modo, i ritratti dei protagonisti si intrecciano vicendevolmente ricomponendo, simbolicamente, i fili della trama. Testimoniano i valori di una società iperindustrializzata, consumista e capitalista, in cui ogni tipo di operazione artistica è trasferibile da un livello intimo, individuale, privato a quello collettivo, pubblico e omologato dell’uomo comune, schiacciato dalla produzione industriale e assuefatto al consumo di oggetti quotidiani.
Veniamo alla tua ultima fatica artistica, in mostra per due mesi a Milano. Quali le novità?
In passato ho già partecipato ad alcune rassegne personali e collettive. Non ho mai avuto pregiudizi né stereotipi sul luogo in cui esporre, ho sempre scelto, ponderando i vantaggi e gli svantaggi anche sul piano, sembra brutto dirlo ma è così, meramente economico. Con Visons mi propongo di descrivere l’essenza della postmodernità, ben tratteggiata dal pensatore Jean Baudrillard: da ciò deriva questa mia ingordigia morbosa per la cronaca, nera o rossa indifferentemente, e per l’informazione immediata e priva di garanzie. Décollage e stralci di pubblicità fungono da allegorie che raffigurano, mediante un dialogo continuo con le reliquie della comunicazione visuale (quotidiani, carta patinata delle riviste, loghi riconoscibili della pubblicità), una visione sfaccettata e multiforme della realtà. Di un mondo in cui, nel bombardamento mediatico h24, le stesse fake news non esistono, perché la realtà stessa è fake.
E Sgarbi come si inserisce in questa avventura?
Pur con tutti i suoi limiti caratteriali, Vittorio è uno che la storia dell’arte la conosce bene e sa destreggiarsi con disinvoltura e lucidità fra le materie più disparate. Ho potuto conoscerlo personalmente durante una sua lezione spettacolo su Caravaggio, presso il teatro sociale di Como. Di lì è iniziata una frequentazione tra di noi che ha prodotto un testo, da lui scritto, a commento della mia mostra. Ne riporto qui uno starlcio: “Tutto, nel mondo attuale, è stato già detto e visto, tutto è preconfenzionato, ma viene ripetuto ugualmente, deve continuare a mostrarsi come in uno spettacolo infinito, una grande narrazione senza un costrutto che sia alternativo all’automatismo per cui si manifesta, un ‘parler pour parler’ in cui vero e falso, importante e inutile, nobile e volgare, intelligente e idiota si confondono disinvoltamente nelle sabbie mobili di una stessa melassa omegeneizzante”.
Sebbene detenga il primato internazionale per numero di siti artistici e archeologici, dichiarati dall’Unesco “patrimonio dell’umanità”, il nostro paese è tra quelli che investono meno nel settore culturale. Un paradosso…
Poiché è impossibile definire con certezza cosa sia l’arte, forse dovremmo riflettere sul fatto che l’artista non è l’arte, il suo ruolo è quello di veicolarla, non di impersonificarla. La presunzione dei nuovi creativi di essere riconosciuti come messaggeri del bello rischia di allontanarci dal vero senso liberatorio e spirituale dell’arte, proiettandoci in un autocompiacimento in cui, variando una citazione di Warhol, i tanto sperati quindici minuti di fama sono ormai stati travolti dalla ricerca dei quindicimila like. La creatività è un aspetto sacro dell’essere umano, ma sarebbe bello condividere ciò che creiamo per il solo piacere di farlo. Detto ciò, i beni culturali necessitano di tutela, conservazione e valorizzazione tramite interventi diretti, come il restauro e la manutenzione, e indiretti, come l’approfondimento e la diffusione della conoscenza di un’opera o di un sito e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Dopo il successo di Vision stai già pensando a un altro progetto?
Per adesso sto lavorando all’allestimento di una mostra che mi piacerebbe ambientare in Inghilterra. Contemporaneamente, ho già firmato la scenografia di alcuni spettacoli teatrali che mi vedranno in tournè per l’Italia. Uno di questi, in particolare, è un cabaret, incentrato sulla vicenda di Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti, i due anarchici italiani ingiustamente processati e condannati a morte con l’accusa di omicidio. La regia è di Gianpiero Borgia e, tra gli attori, figurano anche Raffale Braia e Valerio Tambone. Nonostante tenda a cogliere il desiderio smanioso di spingermi oltre, di raggiungere una meta impossibile vorrei prendermi una pausa per fermarmi un attimo, prima di mettere mano a nuovi progetti.
Nella foto in alto, Vincenzo Mascoli posa davanti a una sua grande opera