Nella “Natività” di Speranza l’autoritratto dell’artista

La presenza dell'autore nel dipinto aggiunge un tocco di originale attualità all'opera, già straordinariamente ricca di riferimenti artistici e biblici

Il Natale, sembra banale dirlo, ma non lo è, è la festività cristiana che celebra la nascita di Gesù: la Natività. Nell’iconografia della storia dell’arte la Natività viene definita attraverso un’immagine in cui è raffigurata la Sacra Famiglia: Maria e Giuseppe, in una capanna o in una grotta, che vegliano il bambino Gesù, che giace al centro fra il bue e l’asinello. Una scena che di solito è arricchita dalla presenza di altri personaggi come i pastori o i Magi, intenti nell’adorazione del Messia.

Un tema sacro largamente riprodotto soprattutto dal Medioevo al Rinascimento, e che gli artisti hanno rappresentato prendendo di certo ispirazione dalle vicende della nascita di Gesù descritte nei “Vangeli dell’Infanzia”, ossia quelli di Luca e di Matteo.

Anche il pittore Francesco Speranza, che ha dedicato gran parte della sua produzione artistica alla rappresentazione del paesaggio, soprattutto quello pugliese, con la realizzazione di alcuni dipinti a carattere religioso (tra cui “Annunciazione“, “Battesimo di Gesù“, “La Samaritana al pozzo“, “Cena di Emmaus“) si è cimentato, in più di un’occasione, col particolare tema della Natività.

Ovviamente lo ha fatto a modo suo, in maniera davvero singolare, con somma partecipazione e devozione, soprattutto nell’opera del 1946, intitolata appunto Natività, appartenente ad una collezione privata.

Schema compositivo dell’opera “Natività”

La sacra scena del dipinto non è ambientata in una capanna, ma in uno spazio architettonico essenziale, caratterizzato da una semplice massa muraria, sui cui lati si aprono delle arcate, circondata tutt’intorno da un deambulatorio. Tutte le superfici sono trattate con soluzione di continuità con un cromatismo terroso. Lo spazio appare come il presbiterio di una basilica, cioè la parte della chiesa cristiana dove si trova l’altare, sul quale l’officiante celebra la Messa.

Nell’impostazione compositiva dell’opera, l’artista sembra aver tratto spunto dalla tradizione quattrocentesca, sia per l’impianto prospettico, perfettamente centrato, che per l’essenzialità della struttura architettonica. Sullo sfondo dello spazio raffigurato, s’impone una grande mangiatoia, nobilitata nell’aspetto specialmente per le dimensioni monumentali, piena di fieno verde, colore che nell’arte sacra cristiana rappresenta il simbolo della vita.

Tuttavia contrariamente all’immaginario iconografico, il bambino Gesù non giace nella mangiatoia ma è adagiato su un altare, ossia il punto cardine della chiesa cristiana, in cui i gesti dei sacerdoti diventano sacri. L’altare, infatti, rappresenta la mensa dell’Ultima Cena, ma anche il Patibolo della Croce, sul quale Cristo ha immolato se stesso: è quindi il luogo su cui avviene la riproposizione del Sacrificio da lui compiuto, attraverso la celebrazione dell’Eucaristia da parte del sacerdote.

Il Salvatore non è disteso sulla superficie nuda dell’altare, ma su un paliotto, il drappo di tessuto utilizzato a corredo dei paramenti sacri nelle funzioni religiose, ed è vegliato dagli sguardi della Vergine Maria, posta a sinistra, con le mani giunte in preghiera, e San Giuseppe, a destra, con le mani incrociate sul petto. I personaggi entrambi in ginocchio in atteggiamento di adorazione sono contraddistinti da una sottilissima aureola dorata, che si staglia sulla mangiatoia.

Questa gestualità delle mani giunte e delle braccia incrociate sul petto ha il suo riferimento nell’iconografia dell’arte medievale ed è simbolo di umiltà, ossequio e volontaria sottomissione, resa ancor più forte con la postura genuflessa. Il mettersi in ginocchio, infatti, esprime la volontà di riconoscersi piccolo dimezzando la propria statura. Ai piedi di Maria, dei panni avvolti in una stoffa sono il segno della loro estrema povertà e di tutto quello in loro possesso per affrontare il viaggio. Tra Lei e il suo sposo si insinuano le teste del bue e dell’asinello che dalle narici rilasciano il fiato necessario a riscaldare il neonato Gesù.

In alto, sulla Sacra Famiglia vi sono i messeggeri inviati da Dio agli uomini, che intonano il canto dell’annuncio della nascita del bambino Gesù: una schiera di figure angeliche che poggia su di un piano etereo dipinto di bianco, colore che simboleggia la purezza e il candore.

Tra queste figure spicca quella centrale su cui scende una stella, che attesta secondo il vecchio Testamento il simbolo della venuta del Messia. Tra questa figura e quella del Salvatore si crea una tensione verticale nel dipinto, che genera un asse di simmetria di tutto l’impianto compositivo.

Unitamente ad essa vi sono altre dodici figure, collocate sei a destra e sei a sinistra. Un numero non certo casuale, pari a quello delle tribù di Israele, che fa chiaramente riferimento ai discepoli scelti da Gesù, chiamati da lui Apostoli – termine che deriva dal greco e significa “inviati” – per dare continuità al messaggio della salvezza da lui proclamato. Ad ogni modo la loro disposizione, in un clima ben diverso, lascia preludere all’Ultima Cena.

Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene (1509 – 1511) Stanze Vaticane – Dettaglio Autoritratto di Raffaello

Queste figure non hanno le fattezze tipiche degli angeli adulti, ma piuttosto ricordano gli angioletti dipinti in maniera insolita da Raffaello nella sua celebre opera “La Madonna Sistina“, in cui appaiono due amorini o puttini a rappresentare proprio la figura ideale di angelo. I putti, ovvero i bambini nudi mostrati quasi sempre con le ali, sono stati utilizzati nella tradizione antica per rappresentare la figura di Eros, il dio dell’amore, conosciuto anche come cupido o amorino.

In epoca paleocristiana, invece, vengono usati per raffigurare gli angeli. Nel Rinascimento questa forma infantile degli angeli appare sempre più nelle opere d’arte e nelle iconografie, per poi avere un’ulteriore diffusione in epoca barocca come motivo decorativo. Così anche per Speranza, la raffigurazione del fanciullo grazioso, ispiratore di innocenza e purezza, rientra perfettamente nella sua idea di angelo come essere celeste dall’animo dolce e puro.

Oltre la Sacra Famiglia e la schiera di angeli nel dipinto appaiono altre sei figure: una in primo piano a destra nello spazio centrale, mentre tutte le altre si trovano nel deambulatorio. Quella presente nello spazio centrale è una figura canuta, vestita con una grande tunica turchese, inginocchiata come assorta in preghiera dopo aver riposto per terra il bastone e i suoi panni: sembra un pastore in adorazione, accompagnato dalle due pecorelle accovacciate che gli fanno da contrappunto a sinistra.

Il pastore a destra, le pecore a sinistra e la stella sulla figura angelica centrale in alto sono posizionati in maniera tale da definire un triangolo, che regola e governa tutta la composizione del dipinto, a cui persino la postura di Maria e Giuseppe sembrano adeguarsi. Una figura geometrica in cui peraltro si ravvisa simbolicamente la Trinità.

Nel deambulatorio sono collocate le altre figure umane: due donne a sinistra, una appena genuflessa sotto l’arcata e un’altra dietro di lei, che sembra estasiata dal canto degli angeli. Dalla parte opposta, invece, a destra vi sono altre tre persone: una donna che sembra scorgersi per vedere la scena, un’altra orante che volge lo sguardo verso la stella ed in ultimo un uomo quasi a margine del dipinto, le cui sembianze sono proprio quelle di Francesco Speranza.

Non solo, ma tranne le figure dello spazio centrale, tutte le altre presenti nel deambulatorio sembrano vestire abiti estranei al contesto della natività. È assai probabile che Speranza abbia voluto riportare su tela persone a lui care, appartenenti alla sua realtà quotidiana. La presenza dell’artista all’interno dell’opera non è certo uno dei tanti camei di hitchcockiana memoria, cioè quelle straordinarie brevi apparizioni che fuori del contesto generale, amava fare il regista nei suoi film, quanto un chiaro riferimento ai grandi artisti rinascimentali come Raffaello, Michelangelo, ma anche Caravaggio.

Dettaglio Autoritratto di Speranza “Natività” – Francesco Speranza “Autoritratto” (1958)

Raffaello ne “La Scuola di Atene“, un affresco situato all’interno delle Stanze Vaticane, che rappresenta i più celebri filosofi e matematici dell’antichità intenti a dialogare tra loro in un immaginario edificio classico, affida alle figure presenti nell’affresco effigi di artisti della sua epoca, compreso se stesso, che a differenza degli altri veste abiti contemporanei.

Anche Michelangelo nell’affresco del “Giudizio Universale“, con grande genialità, nell’imponente composizione dell’impianto figurativo riesce a nascondere un gigantesco autoritratto del suo profilo per poi ritrarsi in un rapporto molto più piccolo nella pelle che tiene in mano S. Bartolomeo. Come pure numerose sono le opere di Caravaggio nelle quali il pittore inserisce autoritratti come personaggio secondario, rivestendo spesso ruoli allegorici, che ci raccontano molto della sua vera natura e del suo carattere complicato.

Così allo stesso modo l’apparizione di Speranza nel dipinto e la sua viva partecipazione all’evento che segna la venuta al mondo del Messia, rivela proprio la sua personalità: il senso religioso dell’artista, la dolcezza del suo carattere e la semplicità francescana dell’uomo. Egli, infatti, appare in abito marrone, colore che rappresenta l’umiltà e la povertà dell’uomo. Colore che ha contrassegnato, fra l’altro, le vesti indossate dalle comunità monastiche francescane.

Del resto ce lo confermano le parole di Lisa Ponti, che nel marzo 1949, sul numero 233 di Domus, la rivista diretta dal padre, il noto architetto Gio Ponti, così dice di Speranza: “i quadretti mistici sono il segno della sua fede”. Tutto ciò rende quest’opera davvero esemplare perché riflette alla perfezione il mondo di Speranza. Un’opera iconografica con cui il pittore scava nella storia grazie ai ricchi riferimenti artistici, simbolici e biblici, aggiungendo poi quel tocco di contemporaneità per la sua presenza nel dipinto.