La via per il successo è lastricata di sconfitte

Tra aneddotti, nostalgia dei vecchi amici e riflessioni sul cinema, l'amarcord di Pupi Avati, ospite del BITalk, incanta il pubblico del Traetta a Bitonto

“La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”. Le parole taglienti che Paolo Sorrentino ha messo in bocca all’iconico Jep Gambardella. Quasi un aforisma per rappresentare nel giro di una frase la vecchiaia: il personaggio interpretato da Toni Servillo parlava in boxer, con la sola camicia appena abbottonata, su uno dei balconi più invidiati di Roma, appoggiato alla balaustra con aria disfatta.

In fondo, se riportiamo alla memoria le parole che ha rivolto Pupi Avati al pubblico del Traetta a Bitonto (ospite del BITalk, la rassegna teatrale e musicale, ma anche tribuna in cui dibattere di politica, cultura e costume) e chiudiamo gli occhi per un momento, possiamo immaginarlo perfettamente nella stessa postura dell’attore napoletano: anche lui con una sigaretta in bocca, magari con il volto più disteso e una maggiore disposizione al dialogo. Forse lo stesso Avati avrebbe preferito chiacchierare con il pubblico in contesti meno formali, davanti a un bicchiere di vino o a un saporito piatto di pasta: infatti, ha raccontato le tappe salienti della sua vita come se stesse parlando ad amici storici o ai suoi nipoti, incuriositi dalle avventure e dalle malefatte compiute dal proprio nonno durante gli anni migliori della sua gioventù.

Pupi Avati e Cosimo Damiano Damato al Bitalk (Foto: Massimiliano Robles)

Pensandoci, realtà e finzione si sono incontrate e amate a prima vista durante la sera di Halloween a Bitonto, senza dar luogo a mostri di alcun tipo. Solo il tempo passato è stato rievocato, e con sé le tante anime che hanno popolato quel mondo, come i suoi genitori e i giovani del ’68, e tutti coloro che contribuiscono a rendere migliori i nostri tempi: si pensi ad Alessandro Haber, storico attore dei film di Avati, intervenuto durante la serata per via telefonica a rassicurare il regista sulle proprie condizioni di salute, vista la recente bufala che ha voluto vederlo nella tomba prima del previsto.

Durante la conversazione con il pubblico, Pupi Avati pare essersi confessato con fare allegro, ironico e a tratti malinconico: nel vivido racconto dei suoi anni passati, ha letteralmente riesumato la paura che lo accompagna sin dall’infanzia, “ora completamente eliminata dall’educazione dei bambini -ha dichiarato con saggezza- nonostante la paura sia una grande maestra di vita e stimoli l’immaginazione”, ha rivissuto l’amicizia e l’affetto che l’hanno legato ai suoi colleghi, primo fra tutti Carlo delle Piane, scomparso ad agosto nella totale indifferenza del mondo del cinema; ha ricordato la florida miseria degli anni Sessanta, “l’epoca in cui un cinema artigianale era molto più redditizio delle raffinatezze esasperate di oggi”, e ridato un senso alla vita facendo riferimento alla metafora dell’ellisse, che soppianta quella storica della parabola rovesciata, ormai consunta e non più proponibile da almeno un secolo a questa parte.

“La vita è in realtà un’ellisse divisa in quattro parti” ha raccontato il regista. “Il primo quarto coincide con l’infanzia, l’età in cui il bambino vive la vita con entusiasmo e con l’idea che lo sarà per sempre. Si passa quindi nel secondo quarto, quello dell’adolescenza e della giovinezza, in cui subentrano la ragione, che fa male, e la paura della morte; così si fanno numerosi calcoli, somme e sottrazioni per andare avanti, giungendo a conoscere le strategie per vivere la vita adulta. In quel momento sembrerà di essere arrivati sulla vetta della vita, da cui abbiamo sempre sognato di godere di una vista mozzafiato, ma a quel punto il panorama non ci piacerà, e saremo costretti a girarci a guardare la vita vissuta, come ci insegna Proust“, spiega Avati.

E riprende: “Si entra, così, nel terzo quarto dell’ellisse, quello del disapprendimento, che ci porta a ripensare all’indietro perché il corpo che ci ritroviamo non risponde più al nostro volere. E a quel punto, non resterà che l’ultimo quarto dell’ellisse, la vecchiaia: alla nostalgia della giovinezza si sostituisce la nostalgia dell’infanzia; cominciamo a vedere allo specchio quel bambino che siamo stati tanti anni fa e desideriamo tanto tornare a esserlo. E si noti che il rapporto fra vecchi e bambini è straordinariamente profondo: i bambini li sento, li guardo e loro ricambiano il mio sguardo, perché sono in grado di leggermi dentro, e io so chi sono loro: a unirci, in particolare, è la vulnerabilità, perché bambini e vecchi sono ipersensibili a tutto.”

(Foto: Massimiliano Robles)

La voce del regista bolognese si è rivelata rivoluzionaria anche a 80 anni, perché ha portato in scena con naturalezza l’impeto, l’insofferenza e soprattutto la progettualità più creativa che caratterizzavano il 1968, uno dei temi principali dell’ultima edizione del BITalk. Ad Avati – e in fondo anche a noi – non sta bene la realtà semplificata e anestetizzata che oggi sembra dominare incontrastata. Egli sogna un mondo fatto di magia e inquietudine, che sia una “notte dei miracoli” perpetua così come fu il giorno in cui s’improvvisò regista con i suoi amici del bar Margherita, dopo aver assistito per puro caso alla visione del più celebre film sulla figura del cineasta, 8 e ½ di Fellini.

“I miei film – spiega – sono spesso stati degli insuccessi, ma vado più fiero per quelli piuttosto che per i più fortunati, perché ho capito – e si capisce in genere – più dalla sconfitta che da una vittoria. La sconfitta mi ha permesso di lavorare meglio: così è stato per Regalo di Natale, a cui mi sono dedicato dopo un momento di seria difficoltà, visto il precedente fiasco, che si è rivelata una delle mie pellicole preferite per una serie di circostanze, come l’idea del poker, partorita da Giovanni Bruzzi, che, da biscazziere qual era, mi aveva chiesto perché non avessi ancora girato un film sul gioco d’azzardo”.

E che dire del commovente ed esilarante incontro con Lucio Dalla, di cui ha raccontato di aver scoperto il talento senza notarlo minimamente? “Suonava malissimo”, ha raccontato Avati con scioltezza e ilarità. “Ma la banda non faceva che elogiarne le doti. Finché un giorno scoprii il suo talento da un assolo con il clarinetto. Da quel momento l’ho invidiato. Ho bramato persino di buttarlo giù dalla vetta della Sagrada Familia a Barcellona, durante una tournée; ma alla fine gli ho fatto credere che fosse lui a volersi buttare da lì”, racconta dvertito.

(Foto: Massimiliano Robles)

Insomma, quello di quest’anno è stato un Halloween che di macabro ha avuto solo i titoli di alcuni film diretti dal regista, come Il signor diavolo o il più agée Balsamus, o l’uomo di Satana; per il resto, a parte un po’ di farina che si ritrova ancora qua e là di fianco a portoni e vetrine, ha decisamente trionfato quell’atmosfera di raccoglimento che è paradigmatica di novembre e in particolar modo del cosiddetto “ponte dei morti”.

Pupi Avati ha contribuito ad accorciare la distanza che ci separa dai defunti con i suoi racconti pregni di vita e di gioioso disincanto, ma non ha dimenticato la propria condizione di persona anziana, e ha salutato il suo pubblico, agganciato dalla poeticità del suo monologo finale, con un desiderio che si identifica con il succo della festività appena trascorsa: “Vorrei che il viaggio che sta compiendo questa mia navicella si concludesse nella cucina di via San Vitale 51 a Bologna, dove mio padre e mia madre mi aspettano per la cena.”

Nell’immagine in alto e nell’articolo, Pupi Avati durante la serata (foto Massimiliano Robles)