Che la tecnologia e i social network abbiano radicalmente mutato, se non rivoluzionato, il modo e l’idea stessa di fare politica, è ormai evidente in tutto il mondo. Adesso, semplicemente, iniziamo a prenderne consapevolezza: basti pensare a quanto accade nel corso di una tornata elettorale, a causa dell’utilizzo di piattaforme, siti web e profili social.
Eppure – giubilavano, urbi et orbi, gli apologeti di internet – l’avvento del computer e delle reti telematiche avrebbe eliminato gli ostacoli e i divari culturali, sociali e di reddito. Armonizzare gli equilibri di forza, smussandone i contrasti, avrebbe posto le basi per una società sempre più autonomizzata, libera e democratica.
Col trascorrere degli anni, tuttavia, man mano che la tecnologia si evolveva, il web ha iniziato a manifestare diverse criticità e vulnerabilità: un luogo che si apprestava ad accogliere, indiscriminatamente, affermazioni false e notizie vere, blog e siti d’informazione rigorosi, basati sul fact-checking, e iniziative di pura propaganda, capaci di alterare sistematicamente la verità dei fatti. Anche la politica, dal canto suo, ha gradualmente mutato le tecniche, le strategie e le abitudini che le grandi piattaforme commerciali avevano già precedentemente sperimentato.
Ma può esserci un uso corretto, opportuno e produttivo dei social network in politica, che recuperi vecchi ma mai superati valori, al fine di promuoverne le finalità in un nuovo quadro digitale? Può essere proficuo un approccio che, da un lato, non criminalizzi le tecnologie esistenti ma, dall’altro, non abbia timore di denunciarne le possibili storture e i pericoli?
E’ da qui che ha preso le mosse la summer school di comunicazione politica, promossa dal dipartimento di Scienze della formazione, psicologia e comunicazione (Forpiscom) dell’università di Bari dedicata all’Hate speech: prevenzione e contrasto, nell’ambito del progetto No odio: nuovi orientamenti oltre la dialettica ostile in rete. Presso l’ex palazzo delle poste, sociologi, psicologi della comunicazione, spin doctor e politici si sono confrontati sulle ragioni e la diffusione di contenuti discriminatori attraverso il web, per tornare, attraverso una comprensione dei limiti delle risorse informatiche, a un’etica tecnologica che sia più attenta ai contenuti che allo scontro.
La summer school si è conclusa con una tavola rotonda a cui hanno preso parte Maria Elena Boschi (Italia Viva), e Antonio Palmieri (Forza Italia), che hanno testimoniato le conseguenze del linguaggio d’odio subìto, alla presenza del neorettore Stefano Bronzini e di Giuseppe Elia, direttore del Forpsicom, e del sindaco di Bari, Antonio Decaro. A moderare l’incontro Dino Amenduni, docente di comunicazione politica ed elettorale presso l’ateneo barese e socio di Proforma, nonché ex consulente per la comunicazione elettorale di Matteo Renzi.
“Nascosti dietro lo schermo di un computer o di un telefono rischiamo di non prevedere le conseguenze delle nostre azioni. I sindaci in particolare, come ribadisce il presidente Mattarella, sono il terminale più esposto e sensibile della nostra democrazia. Le critiche, purché non siano offensive, rivoltemi sui social da semplici cittadini e avversari politici, sono sempre costruttive, uno sprone a ripartire dagli errori commessi”, ha esordito il sindaco Antonio Decaro.
“Ricordo ancora un triste episodio verificatosi all’indomani del mio ingresso in parlamento. Stavo dirigendomi dal presidente della Repubblica per prestare giuramento, quando vengo incalzata e fotografata di spalle. Quel fotomontaggio, che mostrava la mia biancheria intima, è diventato subito virale sui social, finendo in prima pagina su tutti i quotidiani. Come dubitare che fosse un evidente attacco sessista nei miei confronti? Se sei donna e giovane il discredito e l’affossamento mediatico ti colpiscono con maggior facilità”, ha spiegato Maria Elena Boschi.
“Fin dal lontano 1993, quando fui convocato dal cavaliere nella sua villa ad Arcore, ho diretto lo staf della comunicazione elettorale di Forza Italia in tutte le campagne elettorali regionali, nazionali ed europee. Assistiamo al fenomeno delle cosiddette echo chambers, bolle mediatiche – ha proseguito Antonio Palmieri – abbastanza impermeabili che rimbalzano tra loro idee abbastanza simili che si fanno eco reciprocamente. Ma la realtà sta a valle rispetto alla comunicazione, l’esperienza viene prima del web a patto però che quest’ultimo torni ad essere un luogo di incontro e di relazione in cui i discorsi d’odio non abbiano diritto di cittadinanza”.
In questi ultimi anni, la competizione tra partiti si è spostata, anche e soprattutto, su un terreno tecnologico: la presenza fruttuosa ed efficace su internet e sui social network rappresenta un vantaggio competitivo dal quale pare non si possa più prescindere. L’idea di poter guadagnare, in breve tempo, la stessa presenza e potenza sulle piattaforme che vantano i concorrenti è individuata come una possibile chiave di successo. Non le idee, non i contenuti, non la trasparenza nell’operato, non l’attenzione alla qualità, ai toni, al ruolo istituzionale: ciò che conta davvero è superare gli avversari politici nella presenza sui social.
“Il proliferare delle piattaforme e dei social ha riconfigurato l’arena del dibattito politico, togliendo spazio al ragionamento e alle riflessioni profonde. Il web tende, infatti, a veicolare messaggi forgiati con un lessico elementare, pensato per arrivare immediatamente e senza intermediari all’elettore. Io stesso sono reduce da una campagna elettorale per il rettorato nella quale ho resistito alle forti pressioni del mio team di utilizzare un profilo facebook, per avere un feedback costante con gli elettori”, ha precisato il neorettore Stefano Bronzini.
“Esorto gli studenti a interrogarsi sul senso della partecipazione alla vita pubblica, come è necessario da parte di ogni cittadino consapevole. Se volgiamo promuovere un uso più maturo dei social da parte delle nuove generazioni dobbiamo essere, in primis, noi adulti a credere in una politica che non ceda alle offese personali, al discredito dell’avversario, alla diffusione di pregiudizi e discriminazioni”, ha chiarito Giuseppe Elia.
Le piattaforme sono anche un efficace strumento di aggregazione, poiché consentono di organizzare, in pochi minuti, cortei o eventi, magari con l’uso di sistemi di blockhain per evitare falsi profili, capaci di alterare gli equilibri. Una piattaforma non di parte, ma neutra, potrebbe aiutare ad avvicinare alla politica quanti non vogliono esporsi pubblicamente; potrebbe diventare un interlocutore interessante per il legislatore, veicolando proposte e suggerimenti. A patto, ovviamente, che si presti attenzione alla sicurezza informatica dei dispositivi, dei dati, dei flussi di comunicazione e dei server.
“Sono sempre di più coloro che apprezzano i social per la capacità di amplificazione e generazione di virilità del messaggio, attraverso cui abbassare la discussione, il confronto e l’attività politica sino a livelli da lotta di cortile, sfociando spesso nell’offesa personale. Faccio appello alla politica affinché torni a un uso corretto del linguaggio, non solo sui media ma anche nella vita di tutti i giorni. Restituiamo il valore e il senso più autentico alla politica, distinguendo il piano della verità da quello della propaganda. E’ il lavoro che sto portando avanti nell’ambito di una commissione d’inchiesta istituita per indagare sul peso delle fake news nelle campagne elettorali degli ultimi cinque anni”, conclude Maria Elena Boschi.
Per fare buona politica, insomma, occorre utilizzare al meglio le nuove tecnologie. Media e social se finalizzati a creare consenso, educare, informare correttamente e, non viceversa, a gettare discredito, propagare false notizie e fomentare odio, possono rivelarsi straordinari sistemi di crescita democratica, mettendo in rete persone e idee, mobilitando le coscienze su iniziative in grado di cambiare davvero e positivamente la società.