“Ho fatto un’operazione machiavelliana, di palazzo” ha dichiarato soddisfatto Matteo Renzi, il giorno in cui scopriva platealmente le sue carte. “E per me Machiavelli è un grande”, ha poi aggiunto. Certo, Machiavelli è un grande. Ma che c’entra Machiavelli con la scissione dal Pd, consumata subito dopo l’insediamento del nuovo governo, dallo stesso Renzi voluto e auspicato? A ben vedere, niente.
L’ex segretario del partito, ora da lui liquidato come un “partito novecentesco”, quindi inadatto ad affrontare le sfide della presente situazione politica, non è nuovo a quel tipo di paragone, cui si sente forse spinto dalla sua esibita, e talvolta abusata, fiorentinità. Ma chiamare in causa Machiavelli in questo caso è solo l’ultimo, triviale svilimento del suo pensiero: Machiavelli ridotto a tre capitoli del Principe.
Non Machiavelli, ma Machevill, il Machiavelli diabolico che fa da prologo alla tragedia di Christopher Marlowe, L’ebreo di Malta: “Il Mondo pensa che Machevill sia morto. Ma non è così: la sua anima era solo volata al di là delle Alpi, e ora che il Duca di Guisa è morto è venuta dalla Francia a dare un’occhiata in questo paese, e a divertirsi un po’ con gli amici. Lo so che forse il mio nome è odioso a certa gente, ma quelli che mi vogliono bene mi difendano da quelle male lingue, e glielo facciano sapere che sono Machevill, e che non dò peso né agli uomini né alle loro chiacchiere”.

Il testo del 1589 creò (per condannarlo) il machiavellismo, ovvero la manipolazione del pensiero di Machiavelli che riduce l’arte di governare a puro utilitarismo, indipendente da ogni considerazione di carattere morale; che riduce lo statista a colui che si serve di ogni espediente, anche il più subdolo o spietato, pur di raggiungere il proprio fine. Il machiavellismo che Giuseppe Mazzini, nei Doveri dell’uomo, definisce il «travestimento meschino della scienza d’un Grande infelice»; che nella psicologia applicata viene a formare, insieme al narcisismo e alla psicopatia, la “triade oscura” della personalità. Il machiavellismo che, in ultima istanza, non è che la negazione stessa del pensiero di Machiavelli.
Cos’è infatti Il Principe senza il suo ultimo capitolo, l’accorata esortazione a liberare l’Italia dai barbari? Cos’è Machiavelli senza il suo repubblicanesimo, espressione più alta degli ideali classici di libertà? Machiavelli è un grande, certo, ma, come scrisse Ugo Foscolo, è «quel grande / che temprando lo scettro a’ regnatori / gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue.»
Machiavelli scrisse che «nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine», passo controverso da cui la vulgata avrebbe creato il celebre detto “il fine giustifica i mezzi”. Ma il fine ultimo a cui si riferiva Machiavelli era lo stato stabile e virtuoso, non il vantaggio momentaneo di un uomo politico che, messo ai margini dall’evolversi della situazione politica, cerca ad ogni costo il modo di tornare a essere influente: in questo caso mettendo un’ipoteca sul governo da lui stesso voluto e auspicato.
Ciò rappresenta la negazione, non l’esaltazione, di Machiavelli. Come la rappresentano le letture fatte nel corso degli anni da Mussolini, da Craxi e da Berlusconi, per citare tre politici italiani che hanno scritto prefazioni all’opera più famosa del segretario fiorentino.
L’astuzia è una dote di cui sicuramente non difetta il leader del nuovo partito Italia Viva. L’astuzia che, nei bestiari medievali, veniva tradizionalmente rappresentata dalla volpe. Ma si rilegga, il combattivo senatore, il capitolo XVIII del Principe, dove Machiavelli spiega eloquentemente come un buon leader debba possedere, allo stesso tempo, le doti della volpe e del leone, cioè come l’astuzia non possa essere separata dalla forza (che in un sistema democratico s’intenderà come forza elettorale), perché «l’una senza l’altra non è durabile». “Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la golpe et il lione; perchè il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi”, scrive il segretario fiorentino.
Matteo Renzi si è liberato abilmente dai lacci che, dal 4 dicembre 2016, lo tenevano relegato ai margini dell’azione politica, ma affinché la sua operazione sia vincente dovrà anche avere la capacità di sbigottire i lupi. E per questo compito la sua pattuglia di parlamentari, per quanto utilizzata con astuzia, potrebbe risultare insufficiente.