Un meticciato culturale per un’Europa disposta a ragionare

Migrazioni e ospitalità sono realtà ineludibili ai giorni nostri, come aveva già predetto Umberto Eco in alcune conferenze, pubblicate oggi da La Nave di Teseo

Umberto Eco è stato uno dei maggiori intellettuali italiani tra ventesimo e ventunesimo secolo: filosofo e scrittore, accademico e traduttore, grande erudito e bibliofilo. A partire dal suo celebre articolo del 1961 sulla Fenomenologia di Mike Bongiorno, fino al volume Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, apparso pochi giorni dopo la sua morte, nel febbraio del 2016, e passando per oltre 1500 “Bustine di Minerva pubblicate regolarmente sul settimanale “L’espresso”, Eco è stato anche uno dei più attenti e lucidi osservatori dei cambiamenti in atto nella società contemporanea.

Umbeto Eco

Nel gennaio del 1997, in occasione di un convegno organizzato dalla città di Valencia sulle prospettive del nuovo millennio, l’autore del Nome della Rosa tenne una conferenza dal titolo Le migrazioni del Terzo Millennio. Qualche settimana dopo, aprendo un forum internazionale organizzato a Parigi dall’Académie Universelle des Cultures, pronunciava un discorso sul tema dell’intolleranza. Il testo di queste due conferenze viene ora riproposto dalla casa editrice La nave di Teseo (che Eco stesso contribuì a fondare) insieme a quello di altri due interventi, rispettivamente del 2011 e 2012, sotto il titolo Migrazioni e intolleranza. Stefano Eco, figlio dell’autore, nella nota introduttiva li definisce “testi che ci spingono ad agire usando la testa, e non la pancia”, quindi efficace rimedio contro il pericoloso germe diffuso da politici sovran-populisti che anche in questi giorni d’estate, divisi tra beach party e dibattiti parlamentari, hanno mirato a ottenere il contrario.

Il primo testo, in particolare, è di impressionante attualità: sembra scritto come commento alla questione primaria sulla quale l’Italia e l’Europa si trovano a doversi confrontare in modo sempre più drammatico. Parlando ventidue anni fa, quando ancora il fenomeno delle migrazioni dal sud al nord del mondo non aveva assunto le proporzioni epocali cui assistiamo oggi, Eco prevedeva che, nel nuovo millennio, si sarebbe assistito in Europa a un grande “meticciato di culture”, simile a quello avvenuto nel secolo scorso a New York, oppure, ancor prima, in alcuni paesi dell’America Latina: un fenomeno che “nessun razzista, nessun nostalgico reazionario” avrebbe potuto impedire.

Punto fondamentale della riflessione pubblica di Eco era quello della distinzione tra “immigrazione” e “migrazione”: la prima – sosteneva – si ha quando un gruppo di individui, “anche molti, ma in misura statisticamente irrilevante rispetto al ceppo di origine”, si trasferiscono da un paese all’altro. Tale fenomeno, secondo Eco, può essere controllato politicamente, e limitato o incoraggiato a seconda delle necessità del paese ricevente. Il fenomeno delle migrazioni, invece, sarebbe equiparabile a quelli naturali: “avvengono e nessuno le può controllare”.

“Si ha migrazione – affermava Eco – quando un intero popolo, a poco a poco, si sposta da un territorio all’altro, e non è rilevante quanti rimangano nel territorio originale, ma in che misura i migranti cambino la cultura del territorio in cui migrano”. Faceva quindi l’esempio di alcune grandi migrazioni del passato: quella da est a ovest, “nel corso delle quali i popoli del Caucaso hanno mutato cultura ed eredità biologica dei nativi”, quelle dei popoli cosiddetti “barbarici” che invasero l’impero romano creando nuovi regni e nuove culture, o il caso della migrazione europea verso il continente americano; anche questa migrazione “perché non è che i bianchi provenienti dall’Europa abbiano assunto i costumi e la cultura dei nativi, ma hanno fondato una nuova civiltà a cui persino i nativi (quelli sopravvissuti) si sono adattati”. E ribadiva: “Si ha solo ‘immigrazione’ quando gli immigrati (ammessi secondo decisioni politiche) accettano in gran parte i costumi del paese in cui immigrano, e si ha ‘migrazione’ quando i migranti (che nessuno può arrestare ai confini) trasformano la cultura del territorio in cui migrano”.

“Sino a che vi è immigrazione – proseguiva Eco – i popoli possono sperare di tenere gli immigrati in un ghetto, affinché non si mescolino con i nativi. Quando c’è migrazione non ci sono più ghetti, e il meticciato è incontrollabile”. Secondo la sua analisi, i fenomeni che l’Europa cercava e cerca di affrontare come casi di immigrazione sarebbero in realtà casi di migrazione:

“Il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo. Il problema non è più decidere (come i politici fanno finta di credere) se si ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee si debbano erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e siccome non sono un profeta non so specificare la data) l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, ‘colorato’. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso”.

Tale confronto, o scontro, di culture avrebbe anche potuto condurre – secondo Eco – a esiti violenti, però i razzisti – sosteneva – “dovrebbero essere (in teoria) una razza in via di estinzione”. In teoria, appunto. Il semiologo concludeva ricordando il caso del patrizio romano che non voleva accettare che anche i galli diventassero cittadini di Roma, o i sarmati, o gli ebrei come San Paolo. Ma ciò non ha poi impedito a un africano di salire al soglio imperiale. Come è potuto accadere?

“Di questo patrizio ci siamo dimenticati, è stato sconfitto dalla storia. La civiltà romana era una civiltà di meticci. I razzisti diranno che è per questo che si è dissolta, ma ci sono voluti cinquecento anni, e mi pare uno spazio di tempo che consente anche a noi di fare progetti per il futuro”.

Così Eco nel 1997. I muri e i blocchi navali – sembra dirci oggi dall’al di là – potranno solo rinviare, a costo di grandi sforzi e ulteriori sofferenze, una soluzione che non può scaturire da pulsioni selvagge, ma dai valori fondanti della nostra civiltà nata dall’illuminismo, fra questi la tolleranza e l’ospitalità. “Ospitalità universale” che Immanuel Kant, nel 1795, illustrava, come segue, nel suo Progetto per una pace perpetua.

Immanuel Kant

Ospitalità, spiega Kant, significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, se ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando sta pacificamente al suo posto non si deve agire verso di lui in senso ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero possa appellarsi (per questo si richiederebbe un particolare e benevolo accordo per farlo diventare per un certo periodo un abitante della stessa casa), ma un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini, il diritto di entrare a far parte della società in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno al fianco dell’altro; originariamente però nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della Terra.

È anche ispirandosi a Kant che, due anni dopo la pubblicazione di questo paradigmatico testo dell’illuminismo, Francisco Goya dipinse la sua famosa acquaforte “Il sonno della ragione genera mostri”, ovvero: quando gli uomini non ascoltano il grido della ragione, tutto muta in visione. E anche una migrazione pacifica può apparire, a politici desiderosi di lucrare elettoralmente sul comprensibile disagio di settori della popolazione, una minaccia alla sicurezza nazionale.

Nell’immagine in alto, “Il sonno della ragione genera mostri” di Francisco Goya