“L’esilio di Dante dalla patria è un fatto storico, una vergogna grandissima, ma non è compito nostro revocare il bando, perché l’esilio è già finito da tempo: da quasi 160 anni, nel momento in cui nel 1860, sotto la bandiera tricolore del costituendo Regno d’Italia, la patria non fu più Firenze, ma divenne l’Italia e quindi anche Ravenna”.
Con queste eloquenti parole il sindaco di Ravenna, Michele de Pascale, ha posto fine all’ultima puntata della vexata quaestio che da più di cinque secoli, in occasione d’imminenti anniversari, ruota intorno alle ceneri di Dante, alla loro collocazione e protezione.
L’episodio è reso singolare da due elementi: il primo che, stavolta, non è stata la città di Firenze o una personalità ad essa collegata a sollevare il tema della traslazione, ma un’autorevole e orgogliosa cittadina di Ravenna. Cristina Mazzavillani Muti, presidente e direttore artistico del Ravenna Festival, nel maggio scorso ha lanciato la proposta di un temporaneo ritorno delle ossa di Dante nella sua città natale in occasione dei 700 anni dalla morte, avvenuta a Ravenna il 14 settembre 1321.
Forse intendendo sostenere, sia pure indirettamente, la battaglia che da anni conduce il marito Riccardo per la traslazione in Santa Croce delle spoglie di un altro fiorentino illustre: il compositore Luigi Cherubini, morto a Parigi il 15 marzo 1842 e sepolto nel Cimitero del Père-Lachaise (almeno questi non esiliato per iniqua sentenza, ma andatosene di sua spontanea volontà similmente a Leonardo, apprezzato all’estero così come in patria).
Poteva apparire un atto di riconciliazione la proposta della signora Muti, anche se con inevitabili risvolti da “business turistico”, ma il risultato è stato quello di innescare una vivace polemica (complice il caldo ferragostano) tra favorevoli e contrari. Tra i secondi si è distinto lo storico dell’arte fiorentino, nonché severo commentatore politico, Tomaso Montanari che ha definito il futuribile evento una “indegna baracconata”, “un atto di arbitrio e violenza morali insopportabili”, e l’idea di “far finire l’esilio di Dante” una “pornografica formula giornalistica”.
Accusando poi l’amministrazione di Palazzo Vecchio di aver “subito abboccato”, il critico si è forse spinto oltre il contesto, se è vero che il sindaco Dario Nardella, a parte dichiarare di aver avviato consultazioni con il sindaco di Ravenna per le celebrazioni dantesche del 2021, cosa che qualsiasi amministrazione avrebbe fatto, aveva evitato di pronunciarsi sulla proposta, rimettendo al legittimo custode della tomba la decisione: “Sulle ceneri di Dante non dico niente, qualsiasi cosa si faccia sarà possibile solo in totale accordo con la città di Ravenna”.
La polemica è stata condotta anche a suon di versi. Cristina Muti, nel lanciare la proposta, aveva citato parzialmente il celebre incipit del XXV canto del Paradiso, in cui Dante, a ben vedere, non esprime tanto il desiderio di tornare a Firenze quanto quello, se mai il ritorno gli venisse concesso, di ricevere l’incoronazione poetica nel Battistero di San Giovanni, il suo “bel San Giovanni”. Una sorta di secondo battesimo:
con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello.
Montanari le ha risposto con le dure e profetiche parole pronunciate da Brunetto Latini nel XV canto dell’Inferno:
Ma quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno, / ti si farà, per tuo ben far, nimico
Per poi stigmatizzare così la proposta e chi vorrebbe accoglierla: “L’idea di riportare a Firenze le spoglie dantesche che riposano a Ravenna qualifica i fiorentini di oggi per quello che sono: duri di cuore e di comprendonio come i sassi fiesolani da cui scesero a valle i nostri padri etruschi” (sic!). Evidentemente associando se stesso, come ser Brunetto fa con Dante, alla “sementa santa / di que’ Roman che vi rimaser quando / fu fatto il nido di malizia tanta”.
Dal 1321 le ossa di Dante hanno cambiato collocazione almeno otto volte, senza mai abbandonare la città di Ravenna, e in più occasioni, a partire dalla fine del XV secolo, i fiorentini hanno reclamato il ritorno in patria di ciò che rimane del corpo del loro più illustre cittadino (sicuramente meno importante della sua opera creativa). Ma soltanto una volta, esattamente 500 anni fa, ed è questo l’altro elemento che rende particolare l’ultimo episodio della funerea saga, venne loro pietosamente concesso il rimpatrio, che venne però ingegnosamente impedito dai frati del convento di San Francesco, nella cui chiesa era stato officiato il funerale e dove Dante era sepolto.
Nel 1519, sedendo sul soglio pontificio il mediceo Leone X, questi autorizzò (sembra a seguito di una supplica caldeggiata anche da Michelangelo) la traslazione dei resti del poeta. Ma quando la delegazione fiorentina si presentò a Ravenna, e venne aperto il sarcofago, si scoprì che esso era vuoto: i frati, considerando Dante loro confratello, avevano sottratto le ossa dal sarcofago collocato a ridosso del chiostro e le avevano nascoste in una cassetta. Sarebbero state rimesse nell’urna originaria solo nel 1781, quando l’architetto Camillo Morigia progettò l’attuale mausoleo adiacente alla chiesa di San Francesco.
Anche questo, dunque, un anniversario. I fiorentini amanti della poesia continueranno ad omaggiare Dante con lo studio della sua opera, e le autorità comunali portando a Ravenna l’olio – come viene fatto solennemente ogni seconda domenica di settembre – per alimentare la lampada votiva che arde ininterrottamente dal 1908, dono anch’essa della città di Firenze.
L’esilio di Dante non potrà finire con un semplice atto amministrativo, avendolo egli stesso elevato a motivo di onore e di ispirazione poetica, tema centrale della canzone Tre donne intorno al cor mi son venute:
E io, che ascolto nel parlar divino / consolarsi e dolersi / così alti dispersi, / l’essilio che m’è dato, onor mi tegno: / ché, se giudizio o forza di destino / vuol pur che il mondo versi / i bianchi fiori in persi, / cader co’ buoni è pur di lode degno. / E se non che de gli occhi miei ’l bel segno / per lontananza m’è tolto dal viso, / che m’àve in foco miso, / lieve mi conterei ciò che m’è grave.
Versi superbi, dove il poeta, insieme alla dignitosa proclamazione dell’ingiustizia subita e della propria dirittura morale, elegge a sodali del proprio destino le tre donne che fanno visita al suo cuore, anch’esse esuli e trascurate. Donne che dovranno interpretarsi – lo suggeriva già il figlio dell’autore Pietro – come immagini della Giustizia universale, della Giustizia umana e della Legge naturale. Solo con la piena accoglienza delle tre donne nella società degli uomini – sembra dirci Dante – cesserà anche il suo esilio.