Ciascuno di noi ha una missione da portare a termine, nel corso della vita: cercare e possibilmente trovare la chiave in grado di dar senso, e dunque valore, alla propria esistenza.
Se, per alcuni, la strada verso la scoperta della personale vocazione è lunga e ripida, a volte fatta di vicoli ciechi e cambi di traiettoria, altri sono più fortunati. Questi, infatti, nascono già dotati di un talento così puro, cristallino ed evidente che, come una bussola, li orienta, consapevolmente o no, in ogni tappa della vita arrivando a tracciarne la direzione ultima.
È questo il caso di una ristretta cerchia di eletti tra cui, certamente, si può annoverare l’artista Milena Pastoressa: insegnante e pittrice bitontina, emigrata oltre vent’anni fa al nord del paese, è tornata nella sua città natale con la personale “Trent’anni di colori mediterranei”, ospitata presso il museo archeologico della Fondazione De Palo Ungaro.
I quadri di Milena sono espressione del suo vissuto più intimo e caro: soggetti prediletti sono i suoi figli e nipoti ma anche scorci dei luoghi del cuore (in primis, Bitonto con la veduta su San Francesco La Scarpa, ma anche Morigerati, borgo d’origine del marito). Ciò che spicca in ogni lavoro è l’uso di colori sempre accesi e vivi che, da un lato, restituiscono immediatamente quell’immagine del sud così caro alla pittrice e, dall’altro, trasportano lo spettatore lontano dal reale, nella dimensione intima e fascinosa della soggettività artistica.
“La pittura di Milena -afferma il giornalista Marino Pagano, intervenuto insieme al prof. Nicola Pice, presidente della Fondazione de Palo Ungaro, al venissage della mostra- è intellegibile ma non immediata: essa deve essere spiegata e interpretata”. E, dunque, proprio per comprenderne meglio ispirazione e finalità, abbiamo intervistato l’artista che con gentilezza e precisione ha risposto alle nostre domande.
Come ti sei avvicinata all’arte?
Secondo i racconti di mia madre, ho cominciato a utilizzare le matite già quando avevo due anni. All’inizio non ci credevo, ma, poi, diventata mamma, ho notato nei miei figli la stessa tendenza. Il mio primo, vero approccio all’arte l’ho avuto attraverso i santini: mia madre li collezionava e grazie a queste immaginette ho potuto conoscere Michelangelo, Raffaello, Leonardo e Botticelli. Poi, a undici anni, chiesi i primi consigli su come dipingere le tele al titolare della cartoleria Garofalo, nel centro antico. Di lì, da autodidatta, è cominciata la mia avventura artistica.
Hai seguito un percorso di studi che ha assecondato questa tua passione?
Al momento della scelta della scuola superiore, volevo iscrivermi al liceo artistico. Ma mia madre, maestra, voleva che frequentassi il magistrale perché mi sognava insegnante. Alla fine decisi di frequentare l’istituto d’arte, sezione ceramica. Quella scuola, però, si rivelò una forte delusione. Tant’è che, conseguito il diploma, intrapresi un percorso diverso, iscrivendomi alla facoltà di lettere con indirizzo storico-artistico. Nonostante tutto, l’arte ha continuato a far parte della mia vita: a diciotto anni ho allestito la mia prima personale e da lì in poi ho cominciato a girare con i miei quadri la Puglia, la Campania e, più tardi, dopo il trasferimento, anche i territori della bergamasca dove ho lavorato moltissimo grazie all’incoraggiamento della suora che gestiva la pensione in cui vivevo.
Ci sono dei modelli a cui ti ispiri?
Quando ero giovane sì. Ho studiato molto i grandi dell’arte, da Michelangelo a Raffaello a Leonardo. Nella casa in cui sono cresciuta non c’erano molti libri e io sono sempre stata un’appassionata lettrice. Quando avevo quattordici o quindici anni, sono andata a lavorare d’estate solo per guadagnarmi i soldi necessari a comprare le tre monografie di Michelangelo, Leonardo e Raffaello, i miei principali modelli. Posso dire che, non avendo ricevuto molti insegnamenti a scuola, ho studiato molto questi tre artisti, ma anche Caravaggio, fino a quando sono riuscita ad elaborare un mio stile personale.
Quanto è stata ed è importante la pittura nella tua vita?
Quando avevo diciassette anni sono stata in coma per una brutta malattia e i medici dicevano che non potevo farcela. Durante il coma, io vedevo, come dall’esterno, il mio corpo sul letto e la morte che si avvicinava. Devo dire la verità, in quel momento non mi sarebbe dispiaciuto troppo andarmene perché soffrivo tanto; eppure a rammaricarmi erano tre cose: i libri che non avevo letto, l’amore che non avevo potuto dare e le mie tele bianche, ovvero non aver avuto tempo a sufficienza per imprimere i miei sentimenti sulla tela. Questo è il motivo per cui la morte ha deciso di passarmi a prendere più tardi: appena mi sono svegliata, infatti, ho chiesto di avere le matite e i colori perché volevo vedere se la mia mano fosse ancora in grado di disegnare. Per me la pittura è sempre stata un’ancora di salvezza e anche ai miei ragazzi a scuola dico sempre di affidarsi all’arte, la musica, la pittura, la scrittura, durante i momenti difficili, perché l’arte è vita.
La prima cosa che si nota guardando i tuoi dipinti è l’utilizzo di colori molto accesi. Da dove proviene questa scelta?
Una volta mi è stato detto che i miei quadri si vedono anche al buio ed è, effettivamente, vero: anche quelli ambientati di notte non hanno i tipici colori cupi della sera. La scelta di utilizzare questie tinte forti simboleggia la gioia e l’amore per la vita. L’arte non è, per me, solo il rifugio nei momenti tristi, ma anche il mezzo per celebrare quelli felici. Quando sono nati i miei figli e poi le mie nipoti, i colori sono diventati ancora più accesi. Io sono innamorata della vita, nonostante i momenti difficili.
La tua produzione vede la presenza di un certo numero di paesaggi reali, inseriti però in un’atmosfera quasi fiabesca che li trasfigura. Qual è la ragione?
Tutti i miei paesaggi sono visti attraverso il filtro della memoria e della nostalgia. Non dipingo così com’è ma così come io ricordo. E il ricordo che io ho di Bitonto, di cui mi è entrato particolarmente nel cuore il centro antico, è quello della mia infanzia. Della città moderna conosco poco perché sono fuori ormai da vent’anni. Oggi mi sento quasi straniera e ciò mi provoca una grande sofferenza. Però questo, il sud, è sempre il mio luogo dell’anima; questa è la mia gente ed è per tale motivo che dipingo soprattutto scorci del sud. Come insegnante, poi, cerco sempre di proporre ai miei alunni una visione alternativa rispetto alla storiografia ufficiale del processo che ha portato all’unità d’Italia, soffermandomi soprattutto sulle sofferenze e le ingiustizie subite dallle popolazioni meridionali.
Parlando di soggetti pittorici, nella tua pittura prevalgono soprattutto bambini e anziani…
I bambini che dipingo sono solitamente i miei figli e i miei nipoti, mentre gli anziani sono i miei genitori. Dietro questa scelta c’è, dunque, un motivo personale. Ma ritengo anche che le generazioni più belle siano proprio queste due. I bambini perché con loro è possibile costruire ancora qualcosa di bello, come se fossero un terreno da arare, e gli anziani perché hanno la pazienza di ascoltare, a differenza dei giovani che vanno sempre di fretta, presi dal cellulare o da altre distrazioni.
A dispetto dell’immediatezza della pittura, quanta elaborazione c’è dietro ogni quadro?
Ce n’è molta, moltissima. Io leggo tanto e ascolto molta musica e cerco di portare nei miei lavori ciò che leggo e che sento perché ritengo importante creare una sinergia tra più espressioni artistiche. Già nel 1994 ho cominciato a realizzare mostre con l’ausilio della musica e della poesia. Quando, poi, mi sono trasferita al nord ho avviato un gruppo musicale, che ho abbandonato una volta diventata mamma e ripreso un paio di anni fa.
Che valore hanno le origini bitontine nella tua produzione artistica?
Con la mia città ho sempre avuto un rapporto di amore e odio: quando ero molto giovane, infatti, avevo voglia di scappare. Quando mi sono trasferita al nord per la prima volta, quasi mi vergognavo delle mie origini. Adesso, invece, è tutto il contrario e, se potessi, tornerei a vivere qui. Provo una forte nostalgia per Bitonto, specialmente da quando sono diventata mamma perché mi rendo conto che i miei figli hanno un’infanzia molto diversa dalla mia, lontana dai nonni e dai parenti tutti. È proprio la nostalgia ciò che si nasconde dietro i miei scorci di San Francesco La Scarpa.
Che effetto fa tornare ad esporre qui dopo vent’anni?
Da una parte sono emozionata all’idea di rivedere tanta gente cara, dall’altra mi sento un po’ a disagio. Se non fosse stato per la mia famiglia, che si è impegnata per realizzare la mostra, forse non sarei tornata. In ogni caso, l’emozione c’è ed è forte. Staremo a vedere quale sarà l’impatto. Speriamo vada bene.
Qual è, secondo il tuo parere, lo stato dell’arte in Italia?
Hai toccato una nota dolente. Credo sia fondamentale educare i giovani all’arte. Eppure l’Italia, uno dei paesi più ricchi al mondo per patrimonio artistico, investe poco nell’arte e nella cultura. Forse è vero che, come diceva Federico Zeri, questo non è il secolo dell’arte. Ma io allora aggiungo che non è neanche il secolo dell’uomo perché l’arte è l’espressione del sentimento e se non le diamo un posto di valore nelle nostre vite diventiamo aridi.
Nelle immagini, alcune opere di Milena Pastoressa in mostra al museo archeologico di Bitonto