Gli etruschi al centro: dell’Italia, di tante insolute questioni storiche, di un libro di cui stiamo per parlarvi. Dell’Italia, certo: della penisola italica, quantomeno, visto che parliamo di ere geologiche prima rispetto alla nascita di quella che sarà l’Italia, una e unita (quasi, insomma). Siamo, infatti, a cavallo tra Lazio settentrionale, basso senese e primo umbro -versante Trasimeno- il regno etrusco per eccellenza. Con le verdi praterie di Chiusi ad incarnare la sede di questo potere (a proposito: passateci dal famoso museo della città senese, visita obbligata se si è in quelle zone). Quanto al paesaggio e ai paesi vicino Chiusi, impossibile non citare la piccola ma distensiva Sarteano, borgo di anziani sempre incazzati ai bar e non si sa perché, di certo avvinazzati e rubicondi (e, dunque, si sa perché).
Secondo elemento. Le questioni storiche insolute. Tante, assai. Da dove venivano gli etruschi? Davvero vinsero Roma? Magari non era ancora la grande potenza romana come siamo abituati a pensarla, siamo pur sempre nel 500 a. C., era la Roma che provava a diventar grande dopo l’epopea dei sette re, e però non doveva esser facile vincerla, se è vero come è vero che la questione resta ancora dibattuta tra gli storici.
E il re etrusco Porsenna, il leggendario Porsenna, governò davvero la città? Dov’è sepolto? Davvero sotto il lago di Chiusi? Millenari dubbi fanno da sfondo ad una storia che nelle terre di cui vi abbiam detto è stata grande.
E arriviamo al terzo punto. Il libro. Quasi a metà pezzo, ma ci sta. Ben scritto, a tratti lirico, accattivante. Un libro che miscela con successo la passione per un territorio, la sua storia, le sue bellezze. Ma a tutto questo aggiunge l’attenzione massima per l’uomo e i suoi destini, le sue speranze, il suo futuro. Ne è autore Pino Picciariello, cognome dalle chiare (rivendicatissime, per giunta) origini bitontine, un fervido ricercatore di storie e vicende nella grande storia universale delle più importanti istituzioni umane. Un libro in cui ci si affida alla sapienza delle genti etrusche quasi alla ricerca di probabili scorci d’aurora per il nostro presente ed il futuro stesso.
“La porta dell’Ade” è il titolo del volume, pubblicato per i tipi delle edizioni Les Flaneurs di Bari. Gli etruschi, dunque, al centro di quello che resta un romanzo, ma che non è propriamente un romanzo storico in quanto è assolutamente legato al presente, vive nel presente e però nel passato illustre del “popolo oscuro” cerca una traccia.
Una giovane archeologa, ritrovi di amici al cospetto di paesaggi rasserenanti e pasti calibrati ai sapori d’Appennino (in contemplazione tra pensieri, affetti, desideri), la storia sullo sfondo. E il mistero dell’esatto luogo di sepoltura del grande re Porsenna. Da qui l’elezione di questo gruppo di ragazzi circa il futuro del mondo. E da qui anche il loro conoscere i segreti dell’Ade, realtà da loro avvertita e “conosciuta” grazie a notizie provenienti da realtà “altre”.
Storia dunque di conoscenza e di iniziazione. Con richiami che vengono da lontano: dai riti eleusini, ad esempio. Non serve svelare l’ordito narrativo, urge trasmettere il piacere di una lettura, quella del libro di Picciariello, che è sincero nello scorrere di pagine vergate con trasporto verso la storia come valore, la storia oggi negletta, dimenticata, quando non osteggiata. Scandalo degli scandali, non c’è che dire.
L’odio per la storia, dunque per la cultura, in questo paese (va bene il minuscolo, in questo caso) è peggio di Tangentopoli, è peggio di tutto. Perché è vero: siamo la patria del diritto ma poi siamo stati la patria del tirare a campare e quello comportava una cosa triste e dirimente, la corruzione.
Abbiamo negato il diritto da secoli e poi oggi anche la bellezza. Eppure, anche nei periodi della più nera infamia morale, siam sempre stati la terra del bello coltivato (e questa è cultura); delle ricchezze magari ostentate ma volte al decoro estetico; di un paesaggio toscano che appare così sinuoso non tanto e non solo per le virtù generose di Madre Natura ma anche perché l’intelligente politica medicea salvaguardò certi aspetti.
Persino quando c’è stato papa Borgia il bello era lì: a descrivere il potere stesso, certo, ma anche i confini di sguardi di una storia e di una terra. E invece oggi l’inestetica ha preso il volto persino dei moralizzatori (ogni riferimento a Beppe Grillo è puramente voluto), oggi si condanna chi si esprime con gusto ed armonia lessicale perché ha studiato e, se ha studiato, forse, ha anche rubato o quantomeno mi vuole prendere in giro. Finiremo come Pol Pot, quello che uccideva i suoi concittadini stessi anche se solo portavano gli occhiali, segno di studio e lettura.
Qualche sociologo ha definito le nostre le età dell’informazione. Ed è vero: c’è più accesso al sapere (veloce). Ma si legge male e si sa ancora peggio. Tutto questo per dire che l’odio per la cultura in questo Paese (torna, il maiuscolo della speranza, Dio buono!, torna) è inaccettabile. Se poi l’odio per il sapere e per la bellezza è alimentato dal potere, c’è da rabbrividire.
Cosa c’entra tutto questo con il libro di Pino Picciariello? Tutto. Perché un bel libro fa sempre bene alla mente e al cuore e poi perché alla storia di questa strana Penisola italica il testo fa ricorrente ed indubbio riferimento. E l’Italia, coi suoi paesi che vengono da lontano, va amata. Perché come terra -e nella storia delle tante nazioni interne che la compongono- ha privilegiato sempre la bellezza e a quella, se vuole salvarsi, deve tornare. Quest’ultima della bellezza che ci salverà ci pare di averla già sentita. Siamo in buona compagnia, magari perderemo ma almeno avremo combattuto.