Ogni tanto è bello farsi una passeggiata sul lungomare barese. Un’esperienza rilassante, specialmente dopo una giornata piena di impegni. Un vero toccasana, soprattutto nel tardo pomeriggio, quando è possibile incontrare qualunque tipo di persona, grazie anche ai tanti turisti scesi in città dalle navi da crociera. E, allora, è il momento giusto per spingersi sino al Teatro Margherita, fondale scenico di corso Vittorio Emanuele, tornato alla fruizione del pubblico, come spazio culturale, dopo un lungo e complesso lavoro di restauro.
Da metà maggio il Margherita ospita la tappa barese del World Press Photo, la mostra fotografica internazionale, che si è arricchita di contenuti multimediali, proiettati in apposite cabine. La mostra è il frutto della Fondazione World Press Photo, nata nel 1955 ad Amsterdam, una delle maggiori organizzazioni indipendenti e no-profit impegnata nella tutela e libertà di informazione, inchiesta ed espressione, che promuove in tutto il mondo il fotogiornalismo di qualità. La World Press Photo Foundation vanta il concorso dei fotoreportage più prestigiosi, con la partecipazione annuale di oltre 6.000 fotoreporter, provenienti dalle maggiori testate mondiali come Reuters, AP, The New York Times, Le Monde, El Paìs per nominarne solo alcuni. Inaugurata ad Amsterdam ad aprile, per poi proseguire il suo tour mondiale in 100 città e 45 paesi, la rassegna fotografica, a Bari fino al 23 giugno, rappresenta un’occasione unica per entrare in contatto con un mondo diverso e gettare uno sguardo su realtà lontane dalla nostra.
È in momenti come questo che si riesce ad “evadere” dalla piccola realtà in cui si vive, dai piccoli o grandi problemi di ogni giorno, dalle proprie vite, per entrare in quelle di altri, a volte meno fortunati, a volte anche più felici, con preoccupazioni diverse dalle nostre. Gente che si ritrova a gustare momenti per noi del tutto scontati e che, invece, in altre latitudini del mondo, costituiscono una felicità rara: come assistere ad una partita di calcio in posti come l’Iran, dove le donne non possono neppure entrare in uno stadio, e, se ci riescono, è perché sono vestite da uomini.
C’è tutta una umanità a cui è vietato vivere serenamente, senza il pericolo della morte, della guerra, dei colpi di fucile, dell’atroce frastuono delle bombe: è quanto avviene costantemente in Africa, in cui alle donne tocca abbandonare la femminilità per imbracciare già da bambine il fucile. A quanti tocca vivere nella povertà, in ospedali gremiti di pazienti, senza scampo dalle malattie? Ci sono paesi abbandonati a sé stessi, completamente in balia di forze che non fanno altro che piegarli e annichilirli.
Molti tentano di sopravvivere, fuggendo da questi paesi, ma restano traumatizzati dall’orrore a cui hanno assistito, avendo come unica colpa quella di essere nati nella parte sbagliata del mondo. Come nella foto straziante di Enayat Asadi, in cui un profugo afgano tiene ferma la testa di un compagno, appoggiato sulle sue gambe e con gli occhi abbassati, mentre l’uomo che lo sostiene li ha spalancati e guarda fisso nel vuoto.
Danno i brividi quegli occhi e quell’uomo che stringe nella mano destra una bottiglia di plastica vuota, che ha totalmente ceduto alla forza della stretta, accartocciandosi. Chissà quali atrocità hanno visto quegli occhi. Che vita può essere quella di chi sconta la morte ogni giorno?
Tutto il mondo si rivela agli occhi dello spettatore, nei suoi aspetti più sorprendenti e atroci e una delle foto più destabilizzanti è quella di un bambino steso su un materasso, circondato da talmente tanti rifiuti che non si riesce a scorgere il fiume di Pasing, sul quale il bambino galleggia. Il bambino tenta di raccogliere qualcuno di questi rifiuti per riciclarlo, ma è una situazione tanto disperata, quanto titanica. Si percepisce visivamente l’assoluta inutilità di quel gesto e si prova un misto di sconcerto e di profonda tristezza nei confronti di un essere così piccolo, costretto a compiere un’impresa tanto gravosa per la sua età.
Ma la parte che più servirebbe allo spettatore è quella che maggiormente ci riguarda, non perché parli direttamente di noi; in fondo, nulla lo fa, però aiuterebbe quell’utille esame di coscienza che si fa sempre più di rado. Nella foto di John Moore, si vede una bambina, Yanela Sanchez, con una casacca rossa e dei pantaloni neri. Piange, sotto gli occhi di un poliziotto di cui si scorgono solo le gambe. Piange a dirotto, mentre la mamma tiene le mani sulla portella dell’auto della polizia e viene perquisita da un agente. È una scena intensa e straziante, che fa commuovere: non sono pochi i visitatori della mostra che piangono davvero guardando quella bambina arrestata sul confine del Texas. Sono migliaia i migranti che soffrono mentre solo pochi sono quelli che riesco a suprare quei confini, tanto da far domandare se sia questa la civiltà o la più infamante delle barbarie. Tante storie si susseguono, felici e tristi, umane come poche. Storie che reclamano di essere raccontate e viste.