“A trarre vantaggio dalla riforma promossa dalla Lega saranno soprattutto le regioni meridionali. Se, fino ad ora, si è accusato, a torto o a ragione, il governo centrale di non aver incentivato le scuole, gli ospedali, le ferrovie, adesso, con la nuova autonomia, sarà lo Stato a dispensare risorse ai territori affinché gestiscano autonomamente i propri servizi. Più soldi sono vicini ai cittadini, meno si ruba e meglio si governa. Solo garantendo migliore trasparenza ed efficienza i governatori regionali diverranno più responsabili”.
Così, negli ultimi mesi, è tornato a tuonare il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, deciso a realizzare il “passaggio storico” dell’autonomia differenziata per le regioni. Lo scopo della riforma federale, promossa dal leader del Carroccio su insistente pressing, fra i tanti, di Luca Zaia e Attilio Fontana, governatori rispettivamente di Veneto e Lombardia, è contrastare il centralismo mediante un decentramento del potere esecutivo e la progressiva attribuzione di prerogative legislative dallo stato centrale alle realtà periferiche.
Da un punto di vista normativo, l’autonomia differenziata rientra a pieno titolo nel quadro delle competenze legislative delle regioni, sancite dall’articolo 116 al comma III. La Costituzione, infatti, garantisce alle ragioni a statuto ordinario di stipulare con il governo centrale un’intesa per acquisire particolari condizioni di autonomia. Il procedimento richiede l’iniziativa della regione interessata, il parere degli enti locali (obbligatorio ma non vincolante), il rispetto dei principi previsti dall’articolo 119, concernente l’autonomia finanziaria, e l’intesa tra stato e regione. La legge dello stato dev’essere, inoltre, approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base dell’intesa fra lo stato e la regione interessata.
L’opinione pubblica, tuttavia, complice anche la retorica di un ballon d’essai ancora tutto da chiarire, fatica a comprendere quali siano la portata e le reali implicazioni che una simile riforma determinerebbe, qualora ricevesse l’approvazione finale in sede di confronto parlamentare. Le grammatiche del discorso pubblico parlano ora di “autonomia differenziata” o “rafforzata”, altre volte di “regionalismo” o “federalismo”. Provando a far breccia nel mainstream della chiacchiera del web, vediamo di far luce sulla vasta e intricata costellazione giuridica in materia di federalismo.
Tale sintagma, infatti, viene dal latino foedus e significa “patto”, “accordo consapevole”; rinvia, cioè, all’idea di un compromesso tra soggetti liberi. Negli anni Novanta, quando la Lega Nord usciva vittoriosa ad ogni tornata elettorale, il cavallo di battaglia dell’allora segretario Umberto Bossi era l’autonomia della Padania nei termini di un decentramento amministrativo. Bersaglio polemico del Carroccio era la concezione centralistica dello stato, che ostacolava gli individui nella possibilità di organizzarsi autonomamente in associazioni o enti pubblici, pari dal punto di vista della qualità e dell’efficacia. Eppure, il centralismo era la tendenza che andava imponendosi in tutta Europa: meno potere al parlamento e maggiore rafforzamento dell’esecutivo a scapito del legislativo.
È chiaro che la situazione è andata aggravandosi, soprattutto in seguito alle politiche di austerità e rigore, introdotte per far fronte alla crisi economica del 2007. Quali colpe hanno i territori e la classe dirigente locale? In che modo la politica può venire incontro all’esigenza, per i propri cittadini, di amministrarsi autonomamente, senza dipendere da un potere centrale? Nel caso di una reale autonomia differenziata, lo stato riuscirebbe ancora a garantire diritti civili e sociali in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, aiutando le regioni con meno risorse?
Sono questi alcuni dubbi sollevati in occasione dell’iniziativa promossa dall’Associazione nazionale partigiani (Anpi) di Bitonto per riflettere assieme alla cittadinanza sul portato storico della festa nazionale del 2 giugno nonché sulla spinosa questione del federalismo regionale. Presso il museo archeologico De Palo Ungaro, Nicola Colaianni, magistrato ed ex docente di diritto ecclesiastico all’ateneo barese, e Giovanni Procacci, ex senatore Pd e docente di lettere, hanno illustrato, carte alla mano, i pro e i contro del federalismo regionale, analizzando il problema in relazione alla realtà locale. A moderare l’incontro, Valentino Losito, già presidente dell’ordine dei giornalisti di Puglia e oggi membro del consiglio nazionale.
“L’autonomia differenziata non è una decisione uscita dal cappello del governo Lega-M5S. L’articolo 116 che ha permesso di arrivare a questo punto è stato concepito nel 2001, sotto il governo Berlusconi, con la riforma del titolo V della Costituzione, approvata con una maggioranza di centrosinistra e confermata da un referendum. Essa modificava il rapporto tra Stato e regioni, con l’aggiunta che eventuali altre competenze regionali potevano essere attivate con legge statale sulla base di un’intesa tra lo Stato e la regione interessata. Era, sancita, inoltre, la possibilità per le regioni di avere competenze differenziate in vari campi, dalla salute alla prevenzione della sicurezza sul lavoro, alle infrastrutture e ai trasporti”, esordisce Nicola Colaianni.
Recentemente, alcuni paesi, come il Belgio e la Spagna, hanno realizzato un forte processo di decentramento dei poteri; per la verità, fin dal ’93 il Belgio è divenuto uno stato federale a tutti gli effetti. L’attuazione di quanto previsto dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione costituisce il punto centrale del processo diretto a realizzare un federalismo di tipo competitivo. A tal proposito, occorre ricordare che, tra il 2014 e il 2018, Lombardia, Veneto e Piemonte, proprio utilizzando lo strumento previsto dall’articolo 116, comma 3, iniziarono questo percorso indicendo due referendum consultivi per rafforzare la loro posizione nelle trattative con il governo centrale.
“Temo che all’orizzonte si profili una netta divisione dell’Italia fra regioni di serie A e regioni di serie B, anche se il ministro dell’interno nega assolutamente questa eventualità. Ve la immaginate un’Italia in cui il già martoriato sud sia lasciato autonomo? Avete idea dello sfascio a cui andrebbe incontro e le conseguenze per l’intero Paese? Una cattiva interpretazione dell’articolo 116 produrrebbe, inoltre, come effetti a lungo termine, un progressivo indebolimento delle prerogative del parlamento spogliato della facoltà di emendare le singole norme. Verrebbe minato alle fondamenta il principio di solidarietà. Sarebbe la fine dello stato-nazione, destinato a rimanere scatola vuota”, prosegue.
“Il partito democratico, ancora scosso per la batosta elettorale del 4 dicembre 2016, consapevole di non potersi permettere, soprattutto in due regioni importanti come la Lombardia e il Veneto, un’altra rovinosa sconfitta, si schierò contro l’approvazione dell’autonomia. Dopo il successo delle consultazioni popolari, il governo di centrosinistra presieduto da Paolo Gentiloni, quattro giorni prima delle politiche del 4 marzo, ha siglato una pre-intesa con le tre regioni più ricche del nord Italia. Il paradosso sta nel fatto che proprio il centrosinistra, negli ultimi vent’anni, è stato fedele esecutore della volontà dei governatori leghisti, mossi da intenti meramente strumentali, di puro calcolo elettorale”, spiega Procacci.
“Andrebbero, anzitutto, definiti i livelli essenziali di prestazione (lep), garantiti dall’articolo 117, comma II, lettera m della nostra Costituzione, che obbligano lo stato a garantire a tutti i cittadini i diritti sociali e civili, quali, ad esempio, in materia di assistenza sanitaria, istruzione e sistema previdenziale dei lavoratori. Diritti che in certe regioni potrebbero venire a mancare, qualora passasse la normativa voluta dalla Lega. L’articolo 117 parla esplicitamente di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Una qualsiasi riforma che proceda in direzione di un federalismo regionale non può prescindere dal rispetto dei principi costituzionali”, precisa il senatore.
Il Partito democratico di Zingaretti, sebbene abbia posto le fondamenta costituzionali dell’autonomia differenziata, non ha ancora espresso una linea condivisa in materia. Se Renzi – perfino lui! – ha dichiarato apertamente di essere contrario, il governatore del Piemonte, Chiamparino, e quello della Campania, De Luca, hanno preso parte a tavoli tecnici di discussione, manifestando la volontà di dare un esito positivo all’iter avviato. Nonostante Luigi Di Maio scalpiti, dichiarando che “questa autonomia così com’è concepita spacca l’Italia in due, e non credo che nemmeno i cittadini veneti la vogliano”, il leader del Carroccio rincara la dose, fermo nei suoi intenti: “L’autonomia serve a unire un Paese che oggi è diviso, non so se Di Maio se n’è accorto”.
“C’è, inoltre, il rischio che la quantità di servizi essenziali come sanità e istruzione diminuisca nelle regioni dove il Pil pro capite è più basso. Se le regioni del Nord possono trattenere una quota maggiore di Irpef o di Iva, sottraendoli al resto della nazione, come potrà lo stato distribuire i servizi in maniera omogenea sul territorio, se i soldi che arriveranno nelle sue casse saranno molti di meno? Chi accusa il governo giallo-verde, a ragione, di voler abbandonare una parte del paese con l’autonomia differenziata, dimentica forse che non è l’unico colpevole dell’attuale scenario in cui ci troviamo”, chiarisce Procacci.
È evidente che una riforma federale di questo paese, che ecceda la mera dimensione fiscale, non può essere realizzata se prima non si procede a una decisa riforma che riveda l’impalcatura istituzionale e la struttura amministrativa in vigore, mettendo mano alle funzioni legislative dello stato e delle regioni. Bisognerà presto rivedere anche la legge elettorale e ripensare radicalmente i rapporti tra centro e periferia, al limite superare il meccanismo delle regioni a statuto speciale, presentando ciò non come una rivendicazione puramente localistica. Cos’altro è, in fondo, la democrazia se non rispetto dei doveri e rivendicazione dei diritti?