Le zone di confine non sempre segnano passaggi e paesaggi diversi e tantomeno storie differenti, racconti, resoconti dell’umano. Prendi l’uomo appenninico. Egli ha la stessa tempra in qualsiasi Italia tu vada. È l’Italia che è spina dorsale di se stessa. È il Paese che si regge, talvolta tremando come capita anche ai forti. E l’Appennino è forte, sostiene la penisola italica da che geologia è geologia. Giacché è questa a motivare la geografia e la politica nella scelta dei confini. E però passaggi e paesaggi non in tutti i casi, appunto, marcano distanze.
C’è confine e confine o anche uno che, alla fine, così confine non è. Pensiamo a due angoli del nostro Sud. Se sei in autostrada e attraversi la valle del Calaggio, fiume che nasce irpino per morire foggiano mutando nome in Carapelle (da cui poi il moderno paese nella cosiddetta area dei Real Siti), lì ad esempio cogli che i confini un senso possono averlo. Così, pur non mancando, tra Irpinia e Puglia dauna aspetti paesaggistici similari, sulla grande arteria creata per ovviare all’antico viaggione dei pugliesi per arrivare alla vecchia capitale di Napoli oggi puoi cogliere d’un subito le differenze.
Sei a Candela, Rocchetta “la poetica” (come la definiva Francesco De Sanctis, nativo di Morra Irpina, poi in suo onore Morra De Sanctis) si nasconde, sulla destra hai il bianco marmoreo di Sant’Agata di Puglia a chiamarti con lo sguardo (e devi starci attento, le curve del famoso tratto cominciano proprio in quelle lande), sei insomma ancora in Puglia col seminativo e le stagioni del grano a dominare la vista; con ponti romani come se fossero quisquillie e invece, santo cielo, sono la storia e attraversano i fiumi, dicono l’importanza vetusta di queste “vie”. Ebbene, siamo in Puglia: sinuoso il tocco collinare e verde, specie in questo fantastico e felice periodo dell’anno, lo scenario. Poi, tutto si fa più selvaggio, boschivo, ispido.
E sei in Irpinia, prima a Lacedonia e poi a Vallata, nella cosiddetta zona della Baronia. Ma insomma: il paesaggio cambia. Cosa che non succede attraverso una stretta striscia di territorio che oggi vi raccontiamo. Siamo al confine tra tre regioni qui ma lo scenario è uguale perché è sua maestà l’Ofanto a dominare. Il fiume tauriforme cantato dal venosino Orazio, uomo del Vulture, cosciente di appartenere a due terre. Alle due regioni dell’altro confine questa volta uniamo proprio la Basilicata, terra che forse da queste parti si può chiamare ancora così. Perché uno di Melfi o di Montemilone o di Lavello appartiene a questa dimensione dell’apparente “non so”. E sta bene così.
La terra di cui vi parleremo, dove i confini ci sono ma non si vedono, è quella che troviamo appena lasciata la statale 231 all’altezza di Canosa, città madre (della storia, dell’archeologia, degli ipogei), attraversando la sua frazioncina di Loconia e, proprio prima di salire a Lavello, andando verso l’area industriale di Melfi -zona Fiat, oh yes-, prendendo poi l’Ofantina (nomen omen), affiancando subito dopo Monteverde ed Aquilonia (già in provincia di Avellino) ed ecco che mediante questa fascinosa e stretta strada si giunge all’alta Irpinia, non prima di aver sfiorato Ruvo del Monte (Pz). Ed è l’Ofanto ad unire i quattro piccoli paesi meta del nostro viaggio.
Un itinerario che vi abbiamo raccontato esattamente nel suo svolgersi, più che nel suo effettivo arrivo, sicuri come siamo che il viaggio disveli paesaggi e valga già mentre lo si fa, lo si costruisce, prepara, assaggia. Andateci in questi quattro paesi: due lucani e due irpini. Ed ecco l’incredibile Rapone e la soavemente imperiosa Pescopagano, appunto potentine; praticamente affianco a loro Calitri, sorta di naturale portone d’ingresso dell’Irpinia, seguita e in realtà guardata a vista di fronte da Sant’Andrea di Conza, vetusto borgo che appartiene anche nel nome alla grande memoria dell’importante Conza della Campania, storica città già romana e poi sede di una influente diocesi, centro che meriterebbe un approndimento a parte. Qualche nota per questi borghi, simili e diversi.