“Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente bisogna morire”. E’ quanto annotava Michel Faucault quando, nei primi anni Settanta, andava incentrando i suoi studi sull’analisi della malattia, intesa come uno dei molteplici volti della condizione umana. La morte, in fondo, è immanente alla vita, non sopraggiunge come un accidente inspiegabile. Assieme alla vita, forma una trama di senso i cui fili, dopo un’iniziale tessitura, a un certo punto si scompigliano.
Il senso della vita sta proprio in questa ambivalenza simbolica e non nella salute o guarigione, i due capisaldi su cui la medicina moderna, sorta tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, ha fondato sé stessa, a partire dalla dissezione dei cadaveri per giungere alla riduzione del corpo a una sommatoria di organi. Ma il corpo del malato, stimolato dalle sollecitazioni dell’ambiente che lo circonda, coincide con l’organismo? Evidentemente no, perché l’uomo in quanto tale è un’identità unitaria e complessa, impossibile da semplificare o dividere.
Non potendo trovare collocazione nella società il corpo del malato, tuttavia, viene trasferito in quell’ambiente tecnico, l’ospedale, dove lo sguardo del medico non incontra il malato ma la sua malattia. Non visualizza una biografia individuale ma una patologia. Non è in grado di scorgere nel sintomo una domanda di “senso” ma soltanto un segno, che rinvia all’evento patologico indefinitamente riproducibile in tutti i malati similmente colpiti.
Se la medicina ha un oggetto di ricerca ben preciso, l’uomo inteso nella sua interezza, in che modo è possibile aiutare il paziente ad alleviare il dolore della malattia? Come riuscire a persuaderlo che le malattie non sono che quegli strumenti della vita, con i quali il vivente è obbligato a definirsi mortale? Quanto è importante infondere la consapevolezza dei propri limiti senza ledere la dignità del malato?
Sono questi alcuni interrogativi sollevati dal saggio L’esperienza del limite. Vivere la vita. Vivere la malattia (quorumedizioni 2018), presentato presso la Fondazione Villa Giovanni XXIII. Casa e centro polivalente dell’anziano di Bitonto, in occasione del decennale della Casa dell’Alzheimer. Assunta, dal 1999, la configurazione giuridica di onlus, la fondazione s’impegna a sostenere gli anziani o persone affette da patologie invalidanti, fornendo prestazioni di assistenza socio-sanitaria che possano garantire ai pazienti condizioni di miglior benessere.
Il volume rappresenta la sintesi di un ciclo d’incontri svolti presso la struttura socio-sanitaria, culminati in una giornata di studio e confronto, al cui termine i relatori hanno deciso di consegnare alle pagine di un libro i propri interventi per rendere le loro riflessioni accessibili a un pubblico più vasto. Coordinati da Chiara Cannito, vicepresidente della Cooperativa Ulixes, Lizia Dagostino, Grazia Depalo, Sabino Lafasciano, Onofrio Pagone e Nicola Pice, con la sensibilità della propria lente disciplinare, hanno contribuito a narrare frammenti delle “storie quotidiane” dei malati di Alzheimer, esplicitando aneddoti e ricordi personali legati a vicende del proprio nucleo familiare.
Ad introdurre gli interventi, nei luminosi ambienti del centro polivalente dell’anziano, il giornalista Valentino Losito accompagnato da Michele Mirabella.
“La malattia non è un peccato o una punizione, ma è parte integrante della vita, qualcosa che succede a nostra insaputa e di cui non dovremmo affatto vergognarci. È davvero inaudibile che la nostra cultura che si dichiara scientifica e razionale continui a leggere e a interpretare la morte e la vecchiaia come problemi da risolvere, questioni su cui è possibile mettere un punto e andare avanti. Il pensiero dominante ignora che la malattia non sta in una definizione ma in una storia, che può costruire una nuova trama per chi soffre questo disagio”, ha spiegato Michele Mirabella, conduttore di note trasmissioni dedicate ai temi della salute, come Elisir e Tutta Salute e, di recente, insignito della laurea honoris causa in Medicina e chirurgia dall’ateneo barese.
“Se non è dal malato che dipende l’esito della malattia, certamente da lui possono dipendere il percorso, la narrazione e l’esperienza. In presenza del morbo di Alzheimer, infatti, risultano minati i presupposti stessi della comunicazione interumana e viene meno la certezza di chi sia il nostro interlocutore, quell’altro che incontriamo sul nostro cammino il cui volto diventa opaco. Il confronto ravvicinato con questo male incurabile, limite estremo del nostro riconoscimento dell’altro in quanto persona, obbliga tutti, operatori sanitari e familiari a educarci alla sensibilità, all’ascolto e al riconoscimento del bisogno inespresso di chi soffre”, ha detto il filosofo Sabino Lafasciano.
Ma come si configura, da un punto di vista neurofisiologico, il morbo di Alzheimer? Scoperto nel 1906 dal neuropatologo tedesco Alois Alzheimer, è definito demenza presenile, poiché può manifestarsi prima dei 65 anni di età. La comunità scientifica lo inquadra come affezione neurologica cronica a evoluzione progressiva, caratterizzata da un’alterazione intellettuale irreversibile che sfocia in uno stato di demenza.
“I sintomi di esordio sono di tipo cognitivo: il paziente dimentica oggetti, eventi accaduti di recente, luoghi e comportamenti, non riesce più a collocare temporalmente gli eventi né sa dove si trova. Sul piano linguistico la comunicazione tende a diventare incoerente e la comprensione verbale sempre più ridotta”, spiega Grazia Depalo, geriatra presso l’Unità di valutazione Alzheimer del Poliambulatorio distrettuale di Bitonto. “Se i malati di Alzheimer vivono questa realtà “altra” rispetto alla persona “sana”, la comunicazione, seppure “adattata” alla malattia, deve stimolare il malato a ricostruirsi un’autostima, evitando l’isolamento. Penso che una cultura della solidarietà non possa prescindere da una consapevolezza sociale della malattia”, conclude.
“Ascoltare l’altro avrebbe come conseguenza il fatto di non ascoltare più noi stessi, cioè il nostro corpo, artefice di inganni, per dirla col Cartesio delle Meditazioni metafisiche. Ma si tratta di un errore seducente –afferma la psicologa Lizia Dagostino– perché il corpo, in quanto oggetto, non esaurisce il nostro essere e dobbiamo prendercene cura, mentre in quanto soggetto, esso può ascoltarci e instaurare un dialogo con noi. Lo psicologo Paul Watzlawich sostiene che è impossibile non comunicare. Quando ascoltiamo, dunque, non ci limitiamo solo a dare sollievo al nostro interlocutore, bensì lo portiamo all’apice del suo essere, dischiudendogli la possibilità di proferire nuove parole, formulare pensieri, accettando serenamente la sua condizione”.
Non a torto, la scarsa umanità dei medici e degli infermieri che molti pazienti lamentano quotidianamente, altro non è che il residuato di quella concezione “morbocentrica” e non “antropocentrica” della medicina, la cui matrice è ravvisabile nel dualismo cartesiano, per cui bisogna guardare alla malattia ma non al soggetto malato. Siamo davanti a due paradigmi inconciliabili: l’uno parla della persona senza potersi rapportare a un organo, l’altro si riferisce a un organo senza poterlo adeguare alla persona.
“Nella cornice letteraria europea, il limite, metafora della malattia, è stato letto come possibilità stessa del suo superamento: così, ad esempio, nel Leopardi dell’Infinito, nel Pascoli de La Siepe, nel Montale di Ossi di Seppia. A riprova che l’esperienza del limite è un passaggio di crescita che trasforma radicalmente la nostra esistenza. La malattia come storia è il fulcro della cosiddetta “medicina narrativa”; più che una tecnica, siamo difronte a un atteggiamento mentale che richiede, soprattutto al medico, competenze razionali e dimestichezza con il racconto del paziente. Scrivere della malattia significa farsene carico. La scrittura è, quindi, un’operazione di scavo interiore terribile e dolorosa ma, al tempo stesso, catartica e terapeutica”, precisa Onofrio Pagone, giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno.
“Il medico gode di una meravigliosa opportunità: quella di assistere alla nascita delle parole, le cui forme si dispiegano davanti a lui affinché se ne prenda cura. La mitologia antica narra che Cura è una donna che modella dal fango la figura di un uomo; ma Giove, l’unico capace di infondere spirito vitale nelle creature, si rifiuta di lasciarle mano libera nella scelta del nome”, spiega Nicola Pice, studioso del mondo classico.
“Alla fine, grazie anche alla mediazione di altre divinità, è riconosciuta alla dea la facoltà di prendersi cura di un’umanità piombata nel caos della guerra fratricida. Seguendo le coordinate del Martin Heidegger di Essere e Tempo, il mito illustra la condizione ontologica dell’uomo che, solo in quanto preoccupato nel mondo può procurarsi le cose e, quindi, prendersene cura. Dinnanzi a una società che sembra sposare solo la logica dell’efficientismo, della competitività e del profitto, dimenticando il suo debito nei confronti di chi prima di noi ha contribuito alla sua crescita con il proprio lavoro e impegno, occorre comprendere che il malato resta una persona anche durante la malattia, fino al termine della sua vita”, conclude il prof. Pice.
L’uomo soffre ed è, al contempo, capace di alleviare la sofferenza dell’altro. L’io ha bisogno del noi. È l’altro che risponde ai nostri bisogni: la dimensione individuale acquista il suo significato umano quando contiene la risposta a un bisogno dell’altro. Così si costruisce una rete che unisce due individualità in una nuova composizione da cui emerge lo star bene di entrambi, del “sano” e del “malato”.
Favorire le relazioni è la prima e più importante azione per aiutare l’uomo a vivere meglio. Quando i medici, gli psichiatri e gli psicologi clinici cominceranno a parlare non dei malati ma con i malati, fino a condividerne le condizioni critiche, in sintonia con la storia e i bisogni del singolo paziente?