Tra scomode verità e assurde menzogne, il volto “onesto” del brigantaggio

Con un saggio sulla replica della corte borbonica alla relazione Massari, Gaetano Marabello riscrive la travagliata storia dell'unificazione nazionale col Risorgimento

È ormai da diversi anni che Gaetano Marabello, d’origini siciliane ma barese d’adozione, giornalista e ricercatore instancabile, dona al campo degli studi storici di necessaria revisione attorno al tema dell’Unità d’Italia saggi assai innovativi (anche per stile comparativo) e coraggiosi.

È il caso del suo recente “Verità e menzogne sul Brigantaggio. La sconosciuta replica della Corte Borbonica alla relazione Massari (1863)”, edito per i tipi Controcorrente di Napoli, significativamente dedicato alla memoria di Pietro Golia, “caduto tra i libri della sua trincea”. Battitore delle strade del Sud e dei luoghi cari alle memorie meridionaliste, organizzatore, specie in Puglia, di eventi a ricordo delle vittime del violento percorso unitarista, Marabello è al suo terzo approfondimento monografico dopo “Briganti e Pellirosse” (volume che curiosamente mirava a ravvisare molte affinità tra quanto accaduto, in termini di violenza e coercizione, ai Briganti postunitari e ai cosiddetti Indiani d’America) e “La legge Pica (1863-1865). I crimini di guerra dell’Italia unita nel Sud”.

L’ultimo studio si fa davvero portatore di un’autentica, e più che interessante, scoperta storiografica vera e propria. È noto, infatti, come la repressione contro ogni ipotesi di collaborazione alla causa brigantesca comportò, nella truce e lunga fase repressiva nelle regioni meridionali, censurabili razzie, orrendi massacri e ingiustificabili esasperazioni.

La forza delle varie espressioni legate al fenomeno del Brigantaggio non era oggettivamente tale da motivare un così ingente dispiego di forze da parte dell’appena costituito stato unitario, non tanto in termini quantitativi, quanto in merito alla qualità delle scelte e alla brutalità opzionata dalle forze militari e di polizia al servizio del governo.

La base politico-ideologica, ma diremmo ben presto proprio militare, di tutta questa operazione fu indubbiamente la famosa relazione di Giuseppe Massari, collaboratore di Cavour dalle origini pugliesi, barese ma eletto sempre a Taranto. Questo testo, crudo nell’analisi delle diverse situazioni insistenti sotto Roma, costituì insomma il pretesto per l’inveramento, sotto la specie barbaramente e unicamente poliziesca, di ogni idea di sbarramento all’emersione di protesta sociale e politica dopo il cambiamento di dinastia.

Acune immagini di brigantesse

Non si spiega, insomma, Cialdini senza Massari e così anche l’inumana e deprecabile legge Pica (Giuseppe Pica, abruzzese!) non si dà senza le perfette indicazioni della relazione stessa. Ma quale l’attuale scoperta di Marabello?

Se nel saggio del 2014 sulla legge Pica era riuscito a svelare l’identità di un ex giudice borbonico che scrisse contro lo stesso provvedimento normativo che di fatto sospese lo stato di diritto (l’estensore del trattato critico si firmò con uno strano pseudonimo), ora il fiuto dell’autore ci porta alla figura, pressoché sconosciuta (se non agli specialisti), di Giorgio Palomba, un nobile marchese di Cesa e Pascarola, nel casertano.

Egli fu, infatti, il destinatario di una richiesta particolare fatta da Francesco II in persona: rispondere alla relazione Massari. Una risposta scritta in francese e pubblicata poi a Londra. Da qui probabilmente il mistero attorno a Palomba e al suo incarico. Del resto, questa era la domanda di molti.

Possibile che la monarchia e l’intera corte non risposero alle accuse del parlamento italiano? E invece Marabello traduce per il lettore il testo, riconducendo Palomba al suo ruolo precipuo nel delicato contesto storico dell’epoca. Interessante anche la prefazione al lavoro del ricercatore barese Mario Spagnoletti, già docente di Storia Contemporanea all’Università di Bari.

Gentile e i due fratelli Sacchitello

La prospettiva legittimista di Palomba è ovviamente chiarissima. “Se Napoli avesse tanto sofferto sotto i Borbone, si sarebbe facilmente accontentata della novella dominazione. La sua resistenza produce evidentemente il dilemma che o essa non ha sofferto sotto l’antico governo, o che il nuovo è ben peggiore dell’antico e non ha per conseguenza ragione di esistere”, leggiamo nel testo.

Vastissimo l’apparato critico, ben curate le note, quasi sprono a ulteriori ricerche e approfondimenti. Marabello è da sempre felice debitore e fruitore del meglio della pubblicistica e della storiografia di revisione, facendosi ormai decisamente un nome in questa, tanto più se capace anche di risolvere enigmi o annunciare curiosità che, lungi dal soddisfare minuti dati di aneddotica, rischiarano un quadro e delineano un contesto più maturo e coerente agli occhi del lettore ma anche dello stesso storico.

Ora sappiamo, grazie a Marabello, che la dinastia in difficoltà non perse lucidità, seppe rispondere alle accuse, riuscì ancora a dire la propria verità al mondo e alla storia stessa, certo in uno scenario che approssimava inesorabilmente quella fine che già gli eventi bellici e legati alle ultime resistenze delle roccaforti avevano indirizzato in una certa dignitosa e a tratti eroica, ma anche declinante, maniera.