Il conferimento, nei giorni scorsi, della laurea honoris causa in Medicina e chirurgia a mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Ionio, da parte del prof. Antonio Felice Uricchio, rettore dell’Università di Bari, con laudatio del prof. Antonio Moschetta, non è stato certo il riconoscimento di una singolare perizia nelle discipline medico-chirurgiche. Rappresenta, soprattutto, una sorta di riconoscimento alla sua capacità di attenzione verso la persona malata che ha maggiormente bisogno di cura, si tratti del malato di Aids o del malato terminale.
Un’attenzione che si è concretizzata con la realizzazione a Bitonto, dove don Ciccio è stato per 26 anni rettore della basilica pontificia dei Santi Medici e presidente dell’omonima fondazione, di una casa alloggio per sieropositivi e una casa per le cure palliative per pazienti oncologici, l’hospice Aurelio Marena; case per prendersi responsabilmente carico della vita e non solo della malattia dell’altro, case capaci di mettere al centro la persona del malato o del sofferente, specie nelle sue situazioni estreme, giacché la sofferenza non è mai solo una questione fisica, ma richiede incessantemente un supplemento di umanità.

Questa attenzione di don Ciccio è stata costante, direi pure caparbia, ed ha avuto l’indubbio merito di sollecitare il bisogno di un umanesimo che oggi appare sempre più privato dei suoi valori. Per sant’Agostino è attento chi è consapevolmente presente davanti a ciò che vive, fermandosi su di esso e spendendosi per esso. Così si esprime il vescovo di Ippona: “Nullo modo enim sunt onerosi labores amantium, sed etiam ipsi delectant. Nam in eo quod amatur, aut non laboratur, aut et labor amatur” (quando uno ama, le fatiche non sono in alcun modo pesanti, anzi recano soddisfazione. Per il resto quando si ama, non si si fatica, o, se si fatica, questa stessa fatica è amata).
A don Ciccio non si possono non riconoscere la premura, la dedizione, l’impegno profusi nel realizzare le diverse attività sociosanitarie, finalizzate a creare luoghi di sollievo. Questa attenzione si è fatta in lui abito mentale, su cui ha innestato l’idea della solidarietà come vincolo sociale, come fattore di costruzione e di coesione della società. Con coraggio e piena consapevolezza ha più volte sostenuto che il livello qualitativo di una società è dato dal grado di unità, dal potenziale di solidità e di solidarietà sviluppato.

In fondo è stata l’espressione della solidarietà descritta e proposta dalla Sollicitudo rei socialis di papa Giovanni Paolo II: “La solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”. In tal modo la solidarietà sollecita un’etica della responsabilità e l’etica della cura si fa ars medendi, ossia spinta a curare e a prendersi cura della persona, ad accompagnarla e a sostenerla, rispettandone diritti e dignità.
Il malato non è solo il portatore di una patologia; è soprattutto una persona con i suoi sentimenti, le sue conoscenze, la sua esperienza di malattia e i suoi vissuti. E il medico non può esimersi dall’aprirsi alla dimensione interpersonale, alla comunicazione attiva, alla considerazione del malato come persona con un proprio vissuto sociale, nel quale la malattia è solo un aspetto che ha intaccato la sua sfera fisica, familiare.
L’assegnazione di un titolo onorifico allora non può non avere soprattutto questo significato: riconoscere il primato dell’umano e la centralità della persona in uno all’inderogabile urgenza di allargare sempre più la conoscenza delle cure palliative nell’ottica dell’umana sofferenza sostenuta dall’etica dell’amore e dal principio della solidarietà.
“Abbiamo bisogno di una prospettiva che sottolinei il prendersi cura come anima della moralità, in un approccio che attribuisce un grande valore morale ai legami che nascono dall’affetto e dal soffrire insieme all’altro”, sono le parole di Warren Reich, autore della famosa Enciclopedia della bioetica.