Che la storia appresa sui libri di scuola non rispecchi fedelmente la realtà dei fatti è notorio. Come pure è risaputo che il senso degli avvenimenti, così come proposto sulle pagine dei libri, è impresso, per scopi politici o ideologici, dai vincitori, cui “spetta” scrivere la storia.
Il Risorgimento, momento storico decisivo per la costruzione dello stato unitario, non è stato risparmiato negli ultimi decenni da una lettura più analitica, che ne ha fatto emergere le numerose zone d’ombra, nelle quali si annidano circostanze che per convenienza o per timore, sono state tenute nascoste, accreditando il mito di un’Italia fatta “per grazia di Dio e volontà della nazione”, a cui si accompagnava il dovere di fare gli italiani, come sentenziava Massimo D’Azeglio.
Nel marzo 1861, unificato sotto la monarchia dei Savoia, il paese sembrava potersi orgogliosamente scrollare di dosso l’offensiva apostrofe che, una quarantina d’anni prima, il cancelliere austriaco Metternich aveva proferito a proposito dell’Italia, definendola niente più che una mera “espressione geografica”. Giudizio seguito dal non meno lesivo parere espresso nei confronti della nostra dignità nazionale da Lamartine, il quale parlò del nostro paese come di una “terra di morti”.
“Credo che non si possa pensare niente di veramente chiaro e profondo riguardo l’Italia di domani se prima non si sia cancellato il mito, alquanto ufficiale e scolastico, del Risorgimento e dell’unificazione nazionale del 1861”. Ha esordito, così, Umberto Rey, regista e romanziere barese, presentando il suo libro “Il testamento di Don Liborio. Padre d’Italia” (Edizioni Morfeo), conversando col giornalista Domenico Saracino, nel corso di un incontro organizzato a Bitonto nell’ambito di “Memento”, la rassegna dedicata alle vittime di tutti i genocidi che hanno colorato di lacrime e sangue il Novecento.
Rey è un intellettuale a tutto tondo, lontano da ogni deleterio schematismo. Lo scrittore vanta un’esperienza ventennale nel mondo del teatro e del cinema e, oltre a coltivare i propri interessi letterari a metà tra storia e filosofia, è da anni impegnato attivamente in politica. Attraverso il racconto e il gusto per il particolare ha saputo conquistare il pubblico del Traetta.
“L’ispirazione del Testamento di Don Liborio -ha spiegato Rey- risale a due anni fa quando, durante un talk show incentrato sul tema dell’Unità d’Italia, mi resi conto che bisognava approfondire più nel dettaglio le vicende, convinto che dietro la disarmante superficialità del mito risorgimentale, tramandato per generazioni, tanti fossero i retroscena da chiarire”.
Il personaggio che dà il titolo al volume è realmente vissuto nel XIX secolo. Nacque a Patù, borgo vicino a Santa Maria di Leuca, in un meridione dominato dai Borbone, nel 1793 e lì morì nel 1867. Terminati gli studi di giurisprudenza a Napoli, don Liborio cominciò ad interessarsi ai primi moti carbonari, divenendo uno dei protagonisti delle insurrezioni del ’20-’21 e, soprattutto, di quelle del ’48, che scossero le monarchie di mezza Europa. “Questa sua ambiguità, mi è sembrata l’ideale punto di partenza per scavare nelle pieghe della storia nazionale passata”, ha chiarito lo scrittore.
Dopo lo sbarco dei Mille in Sicilia e l’ingresso trionfale a Palermo delle truppe guidate da Garibaldi, Liborio Romano si vide confermato dall’eroe dei due mondi l’incarico di ministro dell’Interno del regno delle Due Sicilie. Nell’operazione furono coinvolti esponenti della camorra, capitanati da Salvatore De Crescenzo, il quale mantenne l’ordine pubblico con la violenza, pilotando il voto dei siciliani nel plebiscito di annessione al regno di Sardegna.
Chi è stato, dunque, davvero don Liborio Romano? Un eroe risorgimentale o uno spregiudicato opportunista politico? Secondo Rey, siamo di fronte a un personaggio “coerente con sé stesso dall’inizio alla fine, se consideriamo che sin dai tempi della carboneria era stato un antiborbonico e, nonostante un incarico così importante, non avesse cambiato idea ma proseguito la sua opera nella medesima direzione”.
Curioso che dei quattro capitoli del libro, a don Liborio sia dedicato solamente il primo: in esso si racconta del testamento spirituale lasciato dal politico salentino nella sua città natale, nel 1866, alla presenza del professor Bedin e del notaio Margiotta. Dalle pagine del libro vien fuori il ritratto di un uomo in tormento con sé stesso, finanche pentito, che attraverso il suo racconto consegna ai posteri un prezioso documento, che svela i dettagli più inverosimili dell’unità d’Italia.
Ad una condizione, però: che questo testamento di valore storico e morale fosse pubblicato e diffuso centocinquant’anni dopo quell’incontro segreto. Bedin e Margiotta acconsentirono, e da allora tutto cambiò in maniera irreversibile. I pronipoti di questi due fondamentali testimoni di Don Liborio sono i veri protagonisti del resto del romanzo. La storia unisce, effettivamente, il passato risorgimentale al presente, creando figurativamente un ponte tra due “blocchi” d’Italia distanti cronologicamente ma sostanzialmente non troppo diversi tra loro.
“L’obiettivo del romanzo è in linea con l’idea di risveglismo culturale che da tempo perseguo, ponendomi come obiettivo lo smascheramento del mito fasullo dell’unità d’Italia e della lotta garibaldina”, ha spiegato Rey rivelando il suo intento: decostruire criticamente la storia inventata dai vincitori e ridare una dignità ai vinti, “noi italiani, meglio, noi meridionali.”
Il suo revisionismo si basa su fonti d’archivio reperite nella city inglese, dalle quali emerge il coinvolgimento indiretto della Gran Bretagna e della Francia: “Casa Savoia, incoraggiata dalle potenze europee, brandì strumentalmente lo spirito patriottico e Cavour sostenne l’impresa dei Mille a patto che fosse messo un argine al pericolo di un’egemonia territoriale ed economica del regno delle Due Sicilie, a danno degli interessi commerciali inglesi. Garibaldi e Cavour furono le pedine di giocatori stranieri, come ancora oggi l’Italia continua ad essere una mera colonia europea”, chiosa l’autore.
L’intellettuale barese ha inoltre evidenziato come la nazione italiana sia sorta in seguito a un tacito patto stato-mafia ante litteram. I Savoia, a suo dire, hanno delegato funzioni di governo, polizia e controllo militare alle famiglie nobili, ai potentissimi baroni dell’ex regno borbonico. “Una massa di delinquenti di picciotti e briganti, si ritrovò improvvisamente trasformata in organizzazione criminale istituzionalizzata e legittimata politicamente. L’attuale difficoltà economica e politica del Mezzogiorno affonda le proprie radici nell’asservimento di un intero paese alle brame di potere dei Savoia”, ha affermato Umberto Rey.
L’unificazione nazionale è stata, a tutti gli effetti, un’annessione militare del Sud da parte delle classi dominanti del Nord. Il Sud passò da una condizione di prosperità e indipendenza a regione marginale di una realtà con cui poco o nulla aveva storicamente a che fare. “Da quel momento il Mezzogiorno si vide sprofondare nella situazione di povertà e miseria, in cui ancora oggi versa e dalla quale deve essere riscattato”, ha concluso lo scrittore.
Occorre, dunque, prendere atto dell’esistenza di questo vulnus rimasto irrisolto. Oggi, finalmente, è possibile valutare i fatti e le idee con il giusto rispetto per le passioni, gli ideali e le circostanze reali che caratterizzarono quell’ampia pagina di storia che è stata il Risorgimento, ristabilendo con spirito critico meriti e colpe di quanti contribuirono a scriverla.