Non c’è classica geremiade che tenga. Nessuna lamentazione, solo constatazioni. Di cosa parliamo? Della cronica e atavica allergia della Terra di Bari alle grandi mostre d’arte e alla ricerca artistica. Mostre che magari narrino i passaggi, descrivendo istinti, scuole, cambiamenti; delineando i percorsi. Mostre critiche.
Non interessa qui il richiamo, il grande nome e poi, gratta gratta, cosa c’è oltre il nome stesso? Nulla o quasi. Qui preme interessarsi a momenti di indagine artistica, investigazione culturale. E così, fatta salva qualche felice eccezione che ora non è il caso di citare (spesso più salentina che barese, precisiamolo subito), negli ultimi anni stiamo vivacchiando nel deserto, tra tanto cammino inesausto, qualche oasi qua e là e molta, molta sete.
La realtà è che Bari sconta da sempre una dimensione periferica. Eravamo periferia prima dell’Unità d’Italia della grande capitale partenopea, siamo stati periferia della periferia dopo. Ma è andata, non c’è che da sperare nel futuro, magari immediato. Nel presente, intanto, vale una capatina in due belle realtà del barese di sud-est la mostra “Giovanni Battista Piranesi. Le carceri d’invenzione”, inserita dal Sac della zona (Ecomuseo di Peucetia, non nuovo a interessanti operazioni culturali) nel progetto “Opere fuori contesto” ed allestita a Palazzo De’ Mari di Acquaviva delle Fonti e al castello Caracciolo di Sammichele di Bari.
Hai detto Acquaviva e hai detto Sammichele: non pochi già i motivi di visita a prescindere. Chissà, torneremo a parlarne. Ora, ecco Piranesi: andateci, la mostra merita. Vediamo perché. Piranesi, intanto. Incisore, architetto, ma anche teorico dell’arte e dell’architettura stessa, visse dal 1720 al 1778. Con lui siamo nel campo del pieno eruditismo di stampo illuminista, fu infatti appassionato anche di archeologia.
In queste incisioni, nate in ambiente romano, l’artista volle offrire l’idea claustrofobica e delirante di uno spazio drammaticamente conchiuso in se stesso, finito nella dimensione del luogo circoscritto, terribile nella visione plastica dell’angusto che opprime. La prigione è fatta di scale senza esito e di corse senza arrivi, dunque di speranze senza fuga.
Sedici le incisioni in mostra nelle due dislocazione logistiche, aspetto forse deludente per il viaggiatore, costretto a raggiungere due posti differenti per tavole che in un unico contenitore sarebbero andate a genio. E però comprensibile appare anche la logica Sac di valorizzazione delle due diverse (e belle, bellissime) realtà. Celebri queste incisioni delle Carceri nel contesto europeo dell’epoca e così il veneto Piranesi fu noto ben oltre confine. Elaborate tra il 1745 e il 1750, sono immagini che rendono alla perfezione anche lo scrupolo tecnico dell’autore nella rappresentazione delle strutture architettoniche.
La specificità formalista, però, nulla toglie all’aspetto drammatico e alla convulsione quasi dantesca della perdizione in cui si trovano le figure nel luogo, nei suoi spazi nefasti, ricettacolo, evidentemente, di colpe altrettanto nefaste. Decisiva anche la scelta di contrapporre, nella stessa immagine, i grandi interni delle prigioni, in realtà delle immense aule-bolge, all’idea tragica della costrizione psicologica da cui si è inevitabilmente permeati e segnati.
Un vero dedalo di afflizione e dolore. Il labirinto puro della sofferenza. Un’occasione, dunque, per lasciarsi suggestionare da un autore che merita altri approfondimenti. Una bella scelta. Chissà che la Puglia non torni a riscoprire anche il “suo” Francesco Milizia, nativo di Oria (Br), anch’egli teorico dell’arte e delle forme, ricordato solo (in parte anche a torto) come il fondatore del Neoclassicismo. Figure diverse e simili, Piranesi e Milizia.
La mostra è visitabile nei due siti espositivi fino al 5 maggio. La Puglia e l’arte. Qualcosa si muove?