Guardando certi scatti fotografici di Domenico Fioriello – architetto-fotografo bitontino che abbiamo il piacere di annoverare tra i collaboratori più apprezzati (a certificarlo è il ragguardevole numero di visualizzazioni dei suoi articoli) del nostro giornale online – non si può non avvertire l’armonica tensione di cui sono permeate le sue immagini. Che è poi la risultante di un preciso processo di costruzione, fondato su una prolungata interrogazione e messa in relazione di spazi, forme, cromie.
Scandagliati da uno sguardo capace di coglierli nella loro espressività e naturale composizione, i profili degli edifici, gli elementi architettonici e paesaggistici, i bordi e i colori del creato finiscono per diventare voci silenti dei luoghi da cui sono estratti. E, al contempo, si pongono come significanti, segni di un alfabeto fisionomico che apre a nuove interpretazioni e altri significati.
Che si tratti delle strade e dei palazzi del centro antico della sua città, Bitonto, del paesaggio murgiano, cui ha dedicato diverse serie fotografiche e approfondimenti, o di altri contesti urbani ed extraurbani, Fioriello ci insegna che ogni particolare può diventare allo stesso tempo elemento caratterizzante del suo insieme e porta verso l’altrove, specchio e finestra sul mondo.
Questa sua sensibilità non dev’essere sfuggita a Giovanni Casetta, grafico pubblicitario torinese, esponente del gruppo Mazz Art, che si occupa di fotografia dalla fine degli anni Settanta. Il quale di recente ha isolato, dal flusso incessante di immagini che scorrono liquidamente sulla rete, una serie di foto – tra cui, appunto, un paio di scatti di Fioriello – accumunate da un unico tema, quello della soglia-barriera.
Ne è nato un progetto editoriale, molto interessante, da lui ideato e curato: “41 Photographers – A glance beyond the barrier, lo sguardo oltre la barriera”, con un testo introduttivo di Fulvio Bortolozzo, anch’egli di Torino, docente allo IED e promotore di attività didattiche nell’ambito della fotografia, oltre che curatore di diversi progetti editoriali come Rest e Questo Paese.
Gli autori sono in gran parte italiani, provenienti dalle più svariate aree geografiche. Qualcuno è più noto rispetto ad altri, perché impegnato già da tempo in un percorso autoriale nel campo fotografico. “È stata una grande sorpresa trovarsi, così all’improvviso, a far parte di questo gruppo di fotografi: una novità, oltre che un onore. Davvero gratificante, soprattutto se si considera il livello qualitativo piuttosto alto delle immagini che fanno parte di questo progetto”, afferma Domenico Fioriello.
“Le due riprese personali scelte e pubblicate – spiega, poi – fanno parte ognuna di una propria serie. La prima, raccolta sulla Poligonale di Bitonto in una mattinata di nebbia del 2014, appartiene ad una sequenza che cerca di registrare le trasformazioni in atto su quella strada. L’altra, che invece riguarda un contesto ben più consolidato, è stata prelevata sulla muraglia di Giovinazzo nel 2018 ed è inclusa in un lavoro più complesso relativo al borgo antico della città”.
In ciascuno dei due scatti la soglia-barriera è un muretto (nel primo caso di cemento, nel secondo di pietre) oltre il quale si scorgono rispettivamente un campo incolto e il mare, protagonista, quest’ultimo, di una buona metà delle fotografie presenti nella pubblicazione. L’ostacolo nega la totalità della visione, la vastità degli spazi (che il mare perfettamente rappresenta), la frammenta e la delimita. Con una intuizione che rimanda, come giustamente sottolineato da Bortolozzo nel testo introduttivo, alla poetica leopardiana, ciascun fotografo sperimenta, nelle parole del prefatore “le potenzialità della negazione” perché “discriminare, selezionare e dare gerarchia al flusso è l’inizio inevitabile del pensare”.
Inquadrare è al contempo ritagliare e rigettare, includere ed escludere il visibile, facendolo dialogare con le sue ombre, con la sua dissoluzione, con la sua sparizione. Con l’invisibile. I fotografi, allora, come i poeti e i grandi cineasti (Bartas, Rossellini, Tarkosvkij, Renoir, Tsai Ming Liang, giusto per citarne alcuni) sono “api dell’invisibile” (direbbe Rilke) che raccolgono “il miele del visibile” per “accumularlo nel grande alveare d’oro dell’Invisibile”.
È un gioco dialettico, tra la percezione del campo (ciò che vedo) e la virtualità del fuoricampo, che esiste in noi grazie alla memoria (se conosciamo il luogo fotografato e ricordiamo ciò che lo completa, fuori dal quadro) o all’immaginazione (se, al contrario, non lo conosciamo); un confronto tra spazi percepiti e spazi immaginati, tra vedere e desiderio di vedere.
A guidare lo sguardo sono elementi del paesaggio antropizzato o naturale, utilizzati come veri e propri binari verso l’infinito. Come faceva Ghirri con i poderi emiliani immersi nella nebbia, spesso inquadrati dal lato dell’ingresso, segnalato da colonne (si veda, ad esempio, Ingresso Casa Colonica, scattata a Formigine nel 1988). Ne scaturisce – ed è questo l’aspetto più risonante della pubblicazione curata da Casetta un potente effetto lirico – perché poetico è l’incontro, sulle soglie, tra visibile e invisibile, e poetico è il naufragare nell’abisso tra di essi.