Qualcuno ha detto – affermazione pesantissima per un italiano – che il mondo non ha mai conosciuto poeta più grande di Charles Baudelaire. Si sa che di critici esaltati è piena la terra; ma questa lapidaria sentenza, seppur estrema, ha del vero. E, per quanto possa dolere il cuore ad ogni connazionale, che rammenta l’inizio della Divina Commedia o si ricorda di Silvia e dei suoi “occhi fuggitivi”, si deve pur dare a Baudelaire quel che è di Baudelaire.
Se la modernità, infatti, ha fatto il suo nobile ingresso nella poesia, il merito – caro lettore – è proprio di questo incredibile poeta francese che parlava di lampioni, treni, carrozze, quando i suoi contemporanei rimpiangevano il passato bucolico e condannavano il progresso e quel presente troppo veloce. Baudelaire scriveva qualcosa di totalmente nuovo, mentre Verlaine si lamentava, giungendo a dire che ormai fosse stato già tutto scritto e che un poeta fosse condannato a ripetere cose dette e ridette.
Ma, a parte la sua arte, di cui si è già ampiamente scritto, non lasciamoci sfuggire l’occasione di trattare un lato inedito della vita di questo scrittore: dà a noi, fortunati posteri, contezza vera del genio che ci cela dietro quei versi splendidi di Les fleurs du mal.
Baudelaire, innanzitutto, era un tipo ribelle. Nacque in un anno benedetto, il 1821, insieme a Flaubert e all’immenso Dostoevskij. Per tutta la vita litigò con tutti i suoi familiari, ma in particolar modo – come accade ai migliori – con la madre che, consapevole della “vivacità” del figlio, gli aveva affiancato un custode che lo controllasse, in modo che non dilapidasse il patrimonio di famiglia e non socializzasse con la “gentaglia” che aderiva ai moti rivoluzionari. Possiamo pur dire che la mamma fosse abbastanza di destra.
E il nostro Baudelaire tentava in tutti i modi di far vergognare la famiglia. E, tra una lite e l’altra, e persino qualche rissa nei bassifondi, si sedeva sulle panchine del porto o in stazione, per osservare le navi che partivano o i treni che giungevano, fantasticando di lasciare Parigi, così noiosa e asfissiante. Sognava palme e luoghi esotici, strade gremite di persone dalla pelle scura e nuvole, nuvole ovunque, che si addensassero in un cielo azzurrissimo, annunciando una pioggia tropicale.
Desiderava più d’ogni altra cosa imbarcarsi alla volta dell’India e restare lì, per sempre, senza rivedere mai più la sua odiatissima città. Un giorno, non si sa bene quando, ebbe modo di far avverare il suo sogno e, dopo aver salutato qualche amico e fatto le valige, salutò Parigi e famiglia da lontano, direttamente dalla nave su cui si era imbarcato e che l’avrebbe portato in India.
Navigò per tre mesi, con la trepidazione dei ragazzini, agitandosi e camminando avanti e dietro sul ponte, finché non vi fu una terribile tempesta che obbligò la nave ad un ancoraggio d’emergenza, per delle riparazioni, presso l’isola di Mauritius. Baudelaire, sceso a terra, si ritrovò su un’isola splendida, con le sue adorate palme e un mare cristallino.
Passò circa un mese e qualcosa cambiò nel suo animo. Non aveva fatto i conti, con il suo spleen, con quel malessere che si portava dietro da tutta vita, ciò che noi oggi chiameremmo depressione. Passò giorni terribili, pervaso da una tristezza tremenda, e giorni, invece, di totale apatia, standosene sull’assolata spiaggia a fissare l’orizzonte. Fu in quei momenti che comprese che nulla sarebbe cambiato in India, perché poco dopo un’iniziale allegria sarebbe nuovamente piombato nella profonda mestizia che ben conosceva.
Non c’era altro da fare: ordinò al capitano di tornare indietro. Baudelaire trascorse altri tre mesi in quel profondo turbamento quando, all’improvviso – così si racconta – alzò gli occhi al cielo e guardò le nuvole che passeggiavano nella volta celeste, coprendo e scoprendo il sole. Si sentì stranamente felice, appagato, ed ebbe il sentore di aver compreso la più grande verità: ogni uomo è piccolo, fugace, quasi inconsistente, rispetto a quel cielo che lo sovrasta, a quelle nuvole che scorrono placide sotto il sole. Capì, per dirla con Leopardi, “che tutto al mondo passa e quasi orma non lascia”. E, per un attimo, trovò un antidoto all’angoscia.
Ne fece un brevissimo racconto che chiamò L’étranger, lo straniero, basato su un dialogo tra due uomini. Possiamo indovinare dietro chi si celasse Baudelaire: “Dimmi, chi ami di più, tu, uomo enigmatico? Tuo padre, tua sorella o tuo fratello? / Non ho padre, né madre, né sorella o fratello. / I tuoi amici? / Usi una parola il cui significato mi è ancora sconosciuto. / La tua patria? / Ignoro quale sia la sua latitudine / La bellezza? / L’amerei volentieri, dea immortale. / Ma allora cos’ami, straniero straordinario? / Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù… laggiù… le meravigliose nuvole!”.
Ed ogni volta che sentì la tristezza montargli dentro, alzò gli occhi al cielo. E, in quella sua vita così infelice e travagliata, riuscì a trovare alcuni momenti di pace.