Eravamo davanti al televisore grande. Aveva la cassa squadrata in legno a finitura lucida e lo schermo di vetro convesso. Si potevano vedere solo i due canali dell’emittente nazionale, spingendo lunghi tasti di ottone in basso a destra. Vedevamo i disegni animati in bianco e nero, distinguendo a fatica i dettagli dei personaggi. Sentimmo ad un tratto la voce dei miei che quasi all’unisono ci chiedevano di esprimere un desiderio.
Era un annuncio di luci e buone emozioni. Così sentivamo che presto sarebbe arrivato Natale. Cosa fosse realmente la ricorrenza dicembrina non stava a noi capirlo. Di sicuro sarebbe stata un’esplosione di novità nelle case dei parenti, dove ci saremmo sfrenati in divertimenti trovati sotto un albero finto di regali veri. Ma prima ci sarebbe stato il rito: una improvvisata processione casalinga di cuginetti verso il presepe più grande della famiglia. In fila indiana, si partiva da una stanza, in genere la prima che si apriva sul corridoio.
I progettisti degli anni Sessanta e Settanta concepivano le case sul modello distributivo delle stanze d’albergo, dove i disimpegni erano lunghissimi fino a comprendere un terzo dello spazio utile di tutto l’appartamento. Così i corridoi acquisivano varie funzioni, dalle piste per tricicli rumorosi fino a piccoli campi da calcio dove le porte erano porte ma di accesso alle camere e ogni gol era segnato, per la gioia dei vicini, da un frastuono micidiale.
In alcuni casi, però, la lunghezza sproporzionata dei corridoi tornava utile. Ad esempio, serviva a rendere più corposa e coinvolgente la processione di Natale, necessaria a far nascere in casa Gesù bambino. Abitualmente, si svolgeva nel pomeriggio della vigilia. L’oscurità calava presto, dopo pranzo. Attendere il venticinque sarebbe stato troppo oneroso, ragion per cui il bambinello rinasceva ogni volta con qualche ora di anticipo.
Mamma e zie preparavano per bene l’evento. In testa all’improvvisata cerimonia c’era il più piccolo, gli altri seguivano in ordine di altezza in modo da non coprire chi veniva dietro. Nel periodo in cui partecipavo alle natività casalinghe, il più giovane sono sempre stato io e, quindi, mi è toccato portare la statuina del neonato Gesù. Gli altri cuginetti, invece, stringevano fra le mani le candele celebrative. Tutti insieme cantavamo le canzoni di Natale.
I classici brani della tradizione internazionale venivano puntualmente storpiati dalle nostre personalissime interpretazioni. Ma la processione era un rito in fondo piacevole perché propedeutico allo svelamento dei regali. Per questo motivo nessuno si opponeva e tutti si gettavano a capofitto senza nascondere troppo le vere motivazioni di tanta smisurata allegria.
Finita la cerimonia della nascita del Salvatore, la statuetta veniva deposta nel presepio fatto a mano dal capofamiglia della casa ospitante. Era una struttura che occupava una intera parete, con montagne di carta e piccole case illuminate all’interno da luci a dodici volt. Per giorni lo spazio al centro della capanna era libero. Sapevamo che, finché quel posto sarebbe rimasto vacante, avremmo vissuto giorni di gioiosa aspettativa.
L’attesa di una felice ricorrenza è sempre migliore dell’evento in sé. Se poi si tratta del Natale e sei bambino, è il momento più bello dell’anno. Le città si accendono a intermittenza di luci colorate e il freddo arrossisce i volti e le mani mentre si sta rannicchiati nei cappotti per non cadere malati. Un ambiente chiuso diventa cantuccio da letargo, la casa è il miglior rifugio.
Così le abitazioni di parenti e amici ci accoglievano per le feste più calde, nonostante fuori fosse inverno. I ricordi di quelle giornate sono vaghi e si limitano alle emozioni più intense, come quelle della Vigilia, quando portavo la famosa statua al presepe. Ricordo che avevo i riccioli d’oro e le sembianze di un profeta nelle vesti di bambino ma coi capelli da bambina.
Passato Natale, scartati e già relegati i regali, l’atmosfera festosa sfumava presto. Manco la generosità dell’orribile befana riusciva a farci tornare lo spirito giusto. Il Natale era già bell’e andato e noi tornavamo alla vita ordinaria fatta sì di leggerezza ma senza quella marcia propulsiva, quell’affetto tenero e confidenziale che solo i giorni di metà dicembre riuscivano a effondere. Si tornava alle immagini emesse dal grande monitor al centro del soggiorno. Era uno strano rivelatore di sogni in scala di grigi. Dietro quel vetro robusto, c’era un misterioso essere che ci ipnotizzava con le sue magie.
La televisione era un’invenzione relativamente recente e lo stupore non era solo esclusiva dei piccoli. Quelle immagini confuse sono oggi più nitide dell’ultima fotografia visualizzata su monitor ad alta risoluzione. La precisione era data dai sentimenti e, quando una scena premeva sul cuore, gli occhi creavano senza filtri.
Per molti anni la quotidianità casalinga d’inverno è stata segnata da pochi ma essenziali elementi. La vita era monocromatica, ma noi la disegnavamo e la dipingevamo con estrema facilità. Quando mio padre portò a casa il primo televisore a colori, ormai, non portavo più Gesù bambino al presepe, la notte di Natale.
(Racconto tratto da Ardite nostalgie – Secop 2016)