Se la forma della pasta è fatta per raccogliere e contenere un ingrediente, allora l’orecchietta è perfetta per accogliere ogni sapore che si vuole mescolare con la pasta stessa. Come un orecchio che ascolta ogni variazione di suono, così questo tipo di pasta, molto famosa nel caratterizzare la cucina pugliese, offre ospitalità al sapore che va a depositarsi in quell’incavo, magistralmente realizzato con il semplice movimento delle mani e magari con un coltello.
La cima di rapa è la pianta chiamata brassica rapa, ortaggio coltivato nel Lazio, in Puglia, Molise e Campania, esportato dagli emigranti italiani anche oltre oceano, negli Stati Uniti e in Australia. Una pianta vigorosa e fitta, con le foglie che si dispongono attorno all’infiorescenza a “boccio” sempre più serrate, e dunque più tenere e dolci, mentre quelle esterne sono ampie e allargate, come cespugli, elevate in senso verticale.
La rapa è un ortaggio autunnale e invernale. Il suo sapore, una volta cotta, è quello della terra alla fragranza di erba dolce e pizzicante; sapore che varia dal gambo alla foglia, con un colore cangiante del verde, tra il chiaro cristallino e quello intenso di un sottobosco appena illuminato.
Il nome della pianta varia da regione a regione: in Campania abbiamo i “friarielli”, a Roma i “broccoletti”, in Toscana i “rapini” e in Puglia proprio le classiche “cime di rapa”.
Ma com’è arrivata sino a noi la pianta? Si racconta di un esploratore partito da Genova per andare verso l’Oriente, altri invece parlano di questa pianta come del “Cavolo di Siria” o “di Cipro”, giunto nel nostro continente solo nel XVII secolo.
Oggi mi piace raccontarvi di un giovane venuto in Puglia attraverso il Mar Ligure, poi il Tirreno e poi ancora il Mediterraneo: aggirando lo Ionio sbarcò nel porto di Bari.
Il suo viaggio era dettato dal commercio di pietre bianche e iridescenti, gli “opali”, che commercializzava dalla Sardegna alla Puglia. Compiva quel viaggio all’inizio dell’autunno per poi arrivare, a dicembre, in quel porto dove le merci e le spezie erano mescolate dal profumo di salso e di terriccio umido e fresco.
Alvise, questo il suo nome, era figlio unico di una famiglia di gioiellieri genovesi che aveva sempre viaggiato e scoperto le terre delle pietre, dall’Australia al grande bacino del mare della sua terra d’origine. Ad accoglierlo al porto c’era Domenico, un vecchio antiquario che abitava nell’entroterra pugliese. Domenico aveva trattato col padre di Alvise per molti anni: ora che era venuto a mancare il padre, lavorare con Alvise gli aveva regalato una nuova energia che sembrava sbocciare dalla terra sui cui camminava da troppe generazioni.
Si fermarono per strada facendo tappa nell’orto di un amico di Domenico per raccogliere alcune verdure che Angelica, sua figlia, gli aveva chiesto per il pranzo: si avvicinava la vigilia di Natale e voleva preparare qualcosa di buono per suo padre e gli ospiti che sarebbero arrivati da altre strade e da altri mari.
La pasta era già stata preparata al mattino, quando il padre era partito col calesse e i cavalli verso Bari. Liscia e morbida, era stata allestita con farina di semola e acqua tiepida, riscaldata d’estate dai raggi del sole e d’inverno dal fuoco a legna. Aveva posto la pentola sul piano di cottura alimentato dal legno d’ulivo che lentamente rilasciava calore e inebriava di un profumo oleoso tutta la cucina. Aveva già staccato alcuni pezzi dall’impasto, muovendoli lentamente sotto il suo palmo di mano: distese i cilindretti sulla tavola di legno appena cosparsa di farina di semola, coprendo il restante impasto con un panno inumidito perché non si seccasse.
Si divertiva nel tagliare i pezzetti a forma di ceci e contemporaneamente li strisciava sulla tavola di legno con la lama del coltello liscio, rovesciandoli con le dita.
Ecco che questi piccoli calici senza lo stelo diventavano “orecchiette” di pasta bianca con un leggero pallore luminoso effetto della semola. Così, capovolte, mostravano la loro cupola verso il cielo. Solcate da piccoli segni, erano poi lasciate rafferme per rilasciare l’acqua in eccesso. La forma era così fissa.
Alvise entrò per primo in cucina con un mazzo di verdura color verde smeraldo che Domenico gli aveva dato mentre stava sistemando i cavalli nella stalla. Alvise conosceva poco quella casa, eppure raggiunse velocemente la cucina per l’odore della cipolla e dell’aglio che stavano imbevendo e inebriando l’olio extravergine d’oliva, deposto nella larga padella sul fuoco a legna. Agnese era di spalle verso la porta della cucina e non sentì i passi felpati e gentili di Alvise. Non appena egli depose il mazzo delle cime di rapa sul tavolo di marmo bianco, allora si voltò di scatto e la sua mano toccò la freschezza delle foglie larghe che odoravano di terra grassa.
Agnese e Alvise si erano visti qualche volta quando erano bambini, ma non nella loro matura adolescenza prima del passaggio all’età in cui si maturano i voleri dei propri piaceri, avendo avuto poche occasioni per conoscersi. Il giovane Alvise rimase fermo, come un albero di ulivo che non si lascia più volteggiare dall’aria, a guardare gli occhi azzurri di Agnese che invece si muovevano come la luce spostata dalle lucciole nelle sere di giugno.
Le mani della ragazza stavano pulendo le cime di rapa dalle foglie grandi e dai gambi lunghi ed esterni, i più duri e stopposi. La fanciulla stava aprendo ogni mazzo dell’ortaggio per catturarne la parte più interna col bocciolo e le foglie più piccole e tenere, incidendo nella base del gambo un segno verticale in modo da far penetrare il sapore della cipolla e dell’aglio. In questo modo la verdura assumeva un sapore mescolato da diverse fragranze, dolce, pizzicato sul palato dall’aglio e nella gola dall’olio.
Una volta pulite e mondate le cime, Agnese le fece scivolare lentamente nell’acqua salata di una pentola stretta ed alta. Il tempo di cottura fu breve: quanto bastò a preparare la tavola per l’arrivo di altri ospiti e ognuno vi pose così un dono per la famiglia di Domenico.
Fu allora che Alvise fece scivolare dalle sue mani alcune pietre di opale sul tavolo di marmo, mentre Angelica si destreggiava ancora nel porre le cime di rapa cotte nella padella calda, con un letto diradato di cipolla tagliata piccola e spicchi di aglio liberato dalla buccia essiccata. Versò poi le orecchiette nella stessa acqua: dopo pochi minuti galleggiavano come teneri fiocchi di neve sull’acqua per poi scivolare nella padella.
Ne nacque una straordinaria mescolanza tra bianco e verde, tra paglierino e foresta, trifoglio e mela: i verdi si mescolavano col bianco e l’iridescenza era continua e tale che il bocciolo della cima di rapa fu ormai avvolto nelle orecchiette come in morbido abbraccio nel piatto di portata. Un abbraccio, forse, molto simile a quello che Alvise da lì a poco avrebbe fatto sui fianchi di Agnese.
Ingredienti per 4 persone:
1,5 kg di Cime di Rapa
1 Spicco d’Aglio
6 cucchiai di olio extravergine d’oliva
Sale
Per la pasta
300 gr. Farina di semola
Sale
Le foto sono di Paola Ricci