Dalla manovra del cambiamento al cambiamento della manovra

Il governo si piega all’Europa dei mercati, rinvia il reddito di cittadinanza e, tra i tagli, include anche quelli pesantissimi all’editoria

L’Europa dice “no”, e allora dietrofront, tutto da rifare. L’obiettivo del governo gialloverde, in queste ore, dopo la bocciatura della commissione europea, è quello di portare il deficit dal 2,4 al 2,04. Povera “manovra del popolo”, quella che doveva abolire la povertà e liberare la sovranità nazionale dalle grinfie dei poteri forti.

A farne le spese sono – innanzitutto – reddito di cittadinanza e quota 100, non si sa ancora esattamente in che misura. La quota destinata al reddito per il 2019 dovrebbe passare da 9 miliardi a 6,1. Ma i cinque stelle assicurano che la platea dei beneficiari del reddito non cambia: il taglio sarà ottenuto attraverso il posticipo della partenza della misura (da inizio anno a marzo) e dalla previsione di un 10% di potenziali beneficiari che non farà domanda. Insomma, abolire la povertà, certo, ma se decidete di restare poveri, o dimenticate di andare a chiedere il reddito, male non fate. Perché altrimenti l’Europa si arrabbia e non si può fare più niente.

È l’ultima beffa rispetto ad una misura che già aveva subito innumerevoli processi di ridimensionamento: da strumento universale, finalizzato al riconoscimento della dignità della persona, ad un sussidio per l’inclusione lavorativa, condizionato all’accettazione delle proposte di lavoro e al consumo “controllato” attraverso una carta che registra tutti gli acquisti. Insomma una riproposizione della “social card”, ma che ti costringe ad accettare qualsiasi lavoro ti venga offerto: altro che reddito per l’autonomia, per campare ti tocca vendere l’anima al diavolo!

Il presidente della commissione europea, Jean Claude Juncker

Ma non è tutto. Nel frattempo è stato anche riproposto in senato dai cinque stelle l’emendamento alla legge di bilancio che prevede tagli impressionanti all’editoria. Un attacco assassino nei confronti della stampa, che conferma la considerazione che i pentastellati hanno per l’informazione. Il testo prevede nel 2019 un taglio dei contributi ai quotidiani e periodici pari al 20% del fondo calcolato sulla base della differenza tra l’importo spettante e 500 mila euro. Nel 2020 il taglio salirà al 50%, nel 2021 sarà del 75%, fino all’azzeramento nel 2022.

Insomma la “manovra del popolo” fa danni da tutte le parti. E la colpa, ovviamente è tutta dell’Unione europea, accusata di frenare l’impeto rivoluzionario di un popolo, di voler mettere il cappello sul potere sovrano di una nazione, incarnato dai due partiti di governo.

Forse quello che sta accadendo in queste ore ci permette di fare con più agevolezza qualche riflessione. La manovra, che è stata presentata in questi mesi come un’arma contro l’Europa dei mercati, ha in realtà ben poco di conflittuale. Essa esprime una visione della politica ancora tutta centrata sulla dimensione nazionale, che è oggi del tutto incapace di cogliere le sfide di un mercato la cui dimensione è sempre più quella globale. Fare spazio ad una nuova visione della politica, che corrisponda ai bisogni piuttosto che agli imperativi economici, significa mordere il mercato sul terreno del suo dispiegamento, decostruire le sue regole, immaginare nuove istituzioni. In questo quadro l’Europa non è uno spettro da cui tenersi lontani, ma un terreno di conflitto in cui dare forma ad una nuova dimensione della politica, che sia all’altezza delle sfide del presente.

Una visione di questo genere richiede coraggio, impegno a lungo termine, capacità di radicamento, che include la costruzione di una cultura condivisa, valorizzando la formazione e l’informazione, incoraggiando la partecipazione consapevole, alimentando lo spirito critico e la consapevolezza.

Tutto il contrario di quello che sta facendo la classe politica al governo. Ciò che resta non è altro che la propaganda, finalizzata alla costruzione del consenso. Su questo Di Maio e Salvini sono maestri, ma il cambiamento non può che essere altrove.

Nella foto in alto, momenti di giubilo dei cinque stelle per l’accordo nel governo sullo sforamento al 2,4%