Quelle nuvole fritte ricoperte di vincotto, delizia sulle tavole di Natale

Di antiche origini e con una forma che rimanda alla simbologia cristiana, le cartellate sono il dolce più tipico tra le prelibatezze del periodo natalizio

Ed eccoci a parlare di cartellate, il dolce tipico del periodo natalizio, che si affaccia sulle tavole già i primi di dicembre per allontanarsene lentamente dopo l’Epifania. Le gustosissime cartellate sono chiamate in diverso modo, a seconda del luogo in cui vengono preparate, in una terrà così ricca di gusto come la Puglia: a Bari carteddàte, a Lecce cartiddate, nell’alto foggiano di Lucera crùstele.

La forma ricorda una “rosa sbocciata”, immaginata dunque al massimo della sua apertura prima che lentamente i petali cadano ed espandano il profumo per tutto il giardino: così anche questo dolce diffonde nell’aria il suo profumo dolce e pizzicato, fragranza che si deve al vin cotto di cui è ricoperto. Ma non manca ovviamente un’ipotesi tradizionale a sfondo religioso.

Il suo disegno, infatti, realizzato da mani esperte e anticamente devote, rappresenta la corona che cinge il capo del Bambino Gesù nella culla, ma anche la corona di spine che cinge il volto di Gesù stesso nella crocifissione. Questo binomio di simbologia, tra nascita e morte, esprime, nel mondo cristiano, la temporalità del passaggio cristiano sulla terra. Questo anche il suo significato nel periodo natalizio.

La parola deriva da “carta” incartellata, sinonimo di incartocciata: anche il famoso dizionario “bitontino” a cura di Giacomo Saracino fa derivare la parola dal greco κάρταλλος, kartallos: cesto o paniere a forma puntuta.

La derivazione della parola confluisce poi nella simbologia cristiana ribadendo come la tradizione culinaria unisca il sacro e il profano in un equilibrio in cui pesi e forme non appaiono ridondanti, ma arricchenti e metaforici. Poi si può annoverare una rappresentazione iconografica addirittura già in una pittura rupestre del VI secolo a.C. rinvenuta a Bari, in cui è rappresentata la preparazione di un dolce simile chiamato “lanxsatura”, offerto agli dei per il culto di Cerere, probabilmente di tradizione greca e associato alle offerte a Demetra, dea della terra coltivata.

In seguito, agli albori del Cristianesimo, le frittelle saranno interpretate come doni alla Madonna, per invocare la buona riuscita dei raccolti. La storia intreccia allora i percorsi del cibo sacro nonostante i passaggi e i cambiamenti religiosi, assicurando anzi continuità.

Come tutte le storie, anche questa avanza nel tempo per strade inaspettate e così un resoconto del 1517 racconta di un banchetto nuziale di Bona Sforza, duchessa sovrana di Bari, dove si parla delle cartellate, descritte come “nuvole”: questa citazione conferma il misticismo e la sacralità che la preparazione del cibo comunque racchiude sempre.

La storia ritrae una ricamatrice seduta sull’uscio della sua casa in una giornata di dicembre in una città interna rispetto al mare di Santo Spirito, a Bitonto: aveva visto correre verso la pasticceria una bambina con trecce così lunghe che saltavano sulle spalle come spighe di grano. Stranamente il sole era così limpido che il cielo si era colorato di azzurro e le nuvole giocavano a rincorrersi nel vento freddo di dicembre. Elisa era sempre di corsa tra la scuola e il laboratorio del padre, un uomo preciso e meticoloso che come un “alchimista” trattava, con le sue mani, la scoperta del gusto dei “dolci”, incuriosito dalla materia così delicata e preziosa dello zucchero, utile a preservare e trasformare gli ingredienti. Elisa osservava l’arte di quella ricamatrice, restando affascinata da come riusciva a far fluttuare il filo colorato che forava il tessuto, non per ferirlo, ma per abbellirlo come un tappeto imbandito di bellezze.

Le sue mani erano talmente leggere e delicate che facevano apparire ogni forma e colore come “ornamenti” di un prato nascosto o di un dipinto non svelato, magari di cortili interni. Il padre Michele la chiamava nel laboratorio, perché aveva ormai finito di studiare per i compiti di lunedì. Elisa osservava allora il padre nel silenzio della domenica: in primis, la laboriosità del suo preparare l’impasto di farina, doppio OO, olio, zucchero, poco acqua e vino bianco per le cartellate. Era l’abilità nella percezione del palato che permetteva a Michele di modellare i dolci sconosciuti, persino nella mancanza di una ricetta “ufficiale”. Non comprava nulla d’industriale o confezionato, realizzando solo quello che produceva: prendeva gli ingredienti, come mandorle e glucosio, dando loro forma alla maniera di un chimico. Era stato il primo a Bitonto a costruire piccole forme di pasticcini, riuscendo mirabilmente a racchiudere nel “piccolo” un gusto ampio e di successo.

La striscia lunga e dentellata della pasta distesa era come un ricamo sul piano e la sua arte era tutta nelle sue mani, cioè nel rialzare, come tante piccole barchette, la massa. Sul punto di contatto tra la pasta, girando la fila di quattro piccole imbarcazioni, dava forma ad una rosa con al centro il quinto spazio. La congiunzione della pasta era fondamentale perché si alzasse la forma nell’aria e galleggiasse nell’olio che intanto si stava riscaldando nella pentola. La sua forma piccola e friabile avrebbe poi accolto il vin cotto all’interno degli spazi creati: la densità imbrunita e sbollentata era lì sul tavolo ad aspettare.

Abilissimo, l’alchimista pasticciere Michele si preparava a calibrare il giusto equilibrio tra il vin cotto versato e la forma raffreddata. Elisa sbarrava gli occhi di gioia e stupore: quelle infinite rose sul tavolo, come ricami fatti di pasta, avevano trasformato un piano di lavoro in una spiaggia segnata da infinite tracce a rilievo.

L’olio dorato stava raggiungendo la giusta temperatura rimanendo costante. Leggero e di un colore giallo limpido, tinta dovuta al suo ricavo da semi di arachidi, rendeva la frittura un vestito increspato e croccante sulla superficie. Galleggiando su un mare di calore, senza fumo e senza scottature o bruciature, ecco la frittura assumere la forma di una nuvola di sapori tra il dolce e l’oleoso. Elisa vide con quanta attenzione il padre poggiava sul piano le cartellate per lasciarle asciugare e raffreddare prima di immergerle nel vin cotto. La tradizione culinaria di Bitonto vuole il vin cotto fatto con i fichi e non con l’uva: è come un mosto fresco se fatto con l’uva mentre i fichi rilasciano la polpa e tutto il suo sapore zuccherino nell’acqua di ebollizione.

I fichi lavati e mondati della stagione si rigonfiano quasi a scoppiare di sapore: sono quelli maturi caduti dall’albero, da porre in una grande pentola piena d’acqua per tenerli ad ammollo a sgretolarsi con tutta la buccia, in modo da ottenere una fermentazione di quasi un giorno. Si formerà così una leggera schiuma bianca, quasi un preavviso per poi portarlo in cottura con lo zucchero intanto aggiunto.

Il caramello del vin cotto, dolce e pizzicante sul palato, dal colore ambrato scuro, fin dalla notte dei tempi sarebbe stato versato sulle cartellate, muovendo nella bocca ad ogni assaggio croccante un contrasto di sensazioni tra il morbido e il fluido.

Quasi di nascosto al padre, Elisa riusciva a catturare le prime cartellate pronte, per essere poi messe nei vassoi della pasticceria.

Il vin cotto, usato già al tempo degli antichi romani, si è poi differenziato nelle regioni in preparazioni diverse, in base all’uso degli ingredienti. Nel Veneto risulta una sorta di mosto di uva “clinton”, con aggiunta di mele, patate e zucca, mentre nelle Marche e in Abruzzo viene utilizzata l’uva di vitigni come il Sangiovese e il Montepulciano. In Salento il vin cotto è chiamato “cuettu”, parola dialettale che sta a significare “cotto”: una bevanda per far rinvigorire dai lavori nei campi i contadini, poi diventata ingrediente in pasticceria.

Quello che non sapevano Elisa e suo fratello minore Filippo era che il padre, Michele Acquafredda, avrebbe svelato solo a loro le giuste quantità per preparare le cartellate perché, come già nell’antichità, gli alchimisti potevano parlare degli ingredienti ma mai svelarne le quantità. Il segreto è nella magia che ogni pasticciere custodisce come un’arte, pari a quella della ricamatrice che infilava i fili colorati, anche lei senza svelare come ruotavano o si legavano tra loro sulla tela stesa sul tavolo.

Ingredienti per l’impasto: Farina OO Zucchero Vino bianco Poca acqua
Per il vin cotto: Fichi maturi Zucchero Acqua
Olio di semi di arachidi per friggere

Le foto sono di Paola Ricci