Il giorno vergognoso in cui Hemingway finì al tappeto

Cent’anni fa, il premio Nobel della letteratura sfidò sul ring Morley Callaghan, per lavare l'affronto di un racconto sulla boxe scritto da quest’ultimo

Appare incredibile che, quando si parla di grandi scrittori, vi siano eventi e curiosità totalmente ignorati dalla storia e dai suoi fautori. Forse perché ritenuti di scarsa importanza rispetto ad altri oppure perché, con il pretesto di ricordare ciò che proprio non va dimenticato, si decide di chiudere un occhio su episodi che potrebbero cancellare la patina di sviolinata grandezza e immortalità dalla biografia di molti amatissimi scrittori, rendendoli più accessibili, per non dire più umani.

E se ne potrebbero citare tanti: per esempio, che a Leopardi la cioccolata piacesse talmente da soffrire per una tremenda indigestione persino il giorno in cui morì. Oppure che Simenon, l’inventore di Maigret, fosse così tanto veloce a scrivere, che gli editori lo trattavano come un fenomeno da circo: lo avevano rinchiuso in un piccolo gazebo in un parco di Parigi (ora vi è una targa a ricordarlo), dove Simenon, di volta in volta, appendeva la pagina appena scritta ai vetri per mostrarla ai lettori, riuscendo a scrivere un libro al giorno. Oppure che Vincent Van Gogh fosse in analisi da uno psichiatra, piuttosto affettuoso.

Adesso, un po’ perché ricorre più o meno in questo periodo, un po’ per il carattere inedito della notizia, è il caso di parlare della volta in cui Ernest Hemingway perse a boxe contro uno scrittore gracilino come Callaghan, con Fitzgerald che faceva da arbitrio. Una storiella di scarsa importanza, ma di cui lo scrittore statunitense si vergognava tantissimo, parlandone in un bel po’ di lettere, molte delle quali scomparse in circostanze non del tutto chiare.

Lo scrittore canadese Callaghan – che in Italia non è molto conosciuto e le cui traduzioni si limitano a due soli libri – parla di questo scontro con il ben più famoso colosso in un suo libro autobiografico, incentrato su quell’estate del 1929, in cui Hemingway e molti scrittori vivevano e scrivevano a Parigi, in quella straordinaria atmosfera culturale, così splendidamente raffigurata in Midnight in Paris di Woody Allen.

Lo scrittore canadese Morley Callagan

I due lavoravano per il giornale Toronto Star ed Hemingway, allora scrittore emergente e presto celeberrimo, aveva tristemente abbandonato i racconti sulla boxe, cui si dedicava sin da ragazzo, per occuparsi di temi di più ampio respiro, come la guerra e le corride. Finché non lesse per caso un racconto di Callaghan sulla sua amatissima boxe, sulla rivista Scribner, assai in voga a quel tempo.

A quel punto, vedendosi rubare il suo argomento prediletto, proprio non seppe trattenersi dall’insultare quello smilzo scrittore che osava – a suo parere – scrivere di una cosa che non conosceva. Giungendo, persino, a sfidarlo. Inizialmente voleva battersi a casa sua, con la moglie di Callaghan come arbitro. Poi, forse per buonsenso, propose un incontro all’American bar, dove avrebbero potuto disputare indisturbati il match.

Mancava giusto giusto un arbitro. Si offrì Francis Scott Fitzgerald, che tifava, neppure tanto segretamente, per Callaghan. Hemingway aveva avuto da ridire – in ben più di un’occasione – sulla bellissima quanto disturbatissima Zelda, la moglie, e Fitzgerald, un po’ come il suo Gatsby, non riusciva proprio a dimenticarsi del passato. Il giorno dello scontro, lo scrittore si presentò completamente ubriaco, esacerbando l’animo già tempestoso di Hemingway.

Iniziò lo scontro e i due presero a lottare e a colpirsi a vicenda, restando in parità per tutto il primo round. Durante il secondo, spinto dal desiderio di mandare subito al tappeto il suo avversario, Hemingway prese a boxare con più forza e rapidità di prima, mostrando un prezioso dettaglio: lasciava scoperto il mento poco prima di colpire. Un errore che si rivelò fatale, poiché subito Callaghan gli colpì il labbro con un poderoso montante, facendolo sanguinare copiosamente.

Meravigliato ma, soprattutto, infuriato, Hemingway riprese a colpirlo con ancora più furia. Callaghan continuò ad assestargli montanti sempre nel medesimo punto, fino a farlo precipitare a terra. Stordito, si rialzò troppo tardi e Fitzgerald lo dichiarò sconfitto – a parere di Hemingway prima del tempo – sostenendo che fosse trascorso un minuto abbondante. Qualunque sia la verità, l’amicizia tra i due scrittori americani finì su quel ring. E quella tra Hemingway e Callaghan non durò più a lungo, dato che quest’ultimo lasciò trapelare la notizia della sua vittoria, pubblicata rapidamente su qualche giornale di New York. Allo scrittore di Addio alle armi per poco non venne un colpo e, sfidandolo nuovamente, pretese che Callaghan si rimangiasse tutto. Pieno di rimorsi, Morley esaudì il suo desiderio pur di mantenere l’amicizia con Hemingway, ma c’era poco da fare: con Hemingway aveva chiuso.

Tanto fece che la notizia sparì da tutti i giornali, scomparve dalle lettere – tranne in qualcuna, indirizzata ai famigliari – e quasi non se ne parlò più. Era una faccenda così ben sepolta che neppure fece scalpore il racconto dettagliato di quell’incontro, pubblicato dallo stesso Callaghan nella sua autobiografia, due anni dopo il suicidio di Hemingway. Certamente, in quel frangente non si sarebbe potuto opporre a una così ignominiosa verità. Ma al suo posto ci pensò il corteo dei suoi fan, poco propensi a farsi rovinare quel mito che tanto amavano.

Nell’immagine in alto, Ernest Hemingway in una foto sulla rivista Life