Siamo bombardati, ogni giorno, a latitudini e longitudini varie, da tweet, sms, messaggi criptati, immersi in quella grande ragnatela di notizie che è il web. Nulla da dire contro le straordinarie potenzialità delle nuove tecnologie. Ci mancherebbe! Quando Guthenberg inventò la stampa a caratteri mobili i chierici, nei loro monasteri, non si ostinarono testardamente a perseverare nella faticosa operazione di ricopiatura a mano dei manoscritti. Non è questo il punto. La vera novità di questi mezzi di comunicazione è che potrebbero determinare – se già non lo hanno fatto – il venir meno di due categorie antropologiche che, trasversalmente, hanno accompagnato il percorso evolutivo dell’essere umano: il tempo e lo spazio.
Tempo significa riflessione, fermarsi un attimo a ragionare, non dare nulla per scontato. Spazio significa abitare una dimora, sentirsi a casa, amare le proprie radici. Entrambi questi concetti hanno avuto nella cultura classica il proprio terreno di fioritura. In Grecia, tra il V e il II secolo a.C., una vasta pletora di filosofi presero a interrogarsi, ad esempio, su come fosse possibile per l’uomo raggiungere la felicità, su quale fosse la vita migliore da condurre. E ancora, come rendere il politico un uomo buono, se l’educazione dovesse essere all’insegna dell’utile o della virtù, e così via.
Possono sembrare domande lontane dalla sensibilità di noi moderni, sempre più abituati a domandarci il “perché” delle cose, laddove forse, le domande concernenti il come risulterebbero più interessanti, ripercorrendo le orme degli antichi. È a partire da questa cornice, da questo sfondo simbolico che prende le mosse Ivano Dionigi, ex rettore dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, nonché rinomato filologo classico, autore del saggio “Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio, Seneca e noi”, edito da Laterza.
Il volume, presentato presso la storica libreria di Bari, con il coordinamento di Rita Ceglie, docente di lettere presso il Liceo Scientifico “Salvemini” di Bari, ha una struttura bipartita. Nella prima parte, sono passate in rassegna le problematiche al centro della riflessione degli antichi (dalla vita ideale alla felicità, fino al delicato rapporto fra apparenza e realtà, passando per la curiositas del viaggio).
Dopo un breve Intermezzo, in cui l’ex rettore racconta perché Lucrezio e Seneca hanno inciso particolarmente sulla sua formazione, fin dagli anni in cui, giovane studente, sedeva fra i banchi del liceo Mamiani di Pesaro, la seconda parte del libro si presenta sotto forma di un dialogo immaginario fra due celebri filosofi e letterati, la cui opera ha attraversato, trasversalmente, la cultura europea nel suo insieme.
Da un lato, Tito Lucrezio Caro, autore del poema De rerum natura che traduce in versi il pensiero filosofico di Epicuro, trapiantato in Italia, nella prima metà del I secolo a.C., grazie al lavoro di alcuni divulgatori. Siamo nella turbolenta età delle guerre civili che insanguinarono Roma e l’Italia nel corso del I secolo a.C.. Dall’altro, Lucio Anneo Seneca, il filosofo-precettore che, a metà del I secolo d.C., cercò di traghettare il suo principe Nerone verso un modello di governo “illuminato” ma, falliti i numerosi tentativi, trascorse gli ultimi anni ritiratosi a vita privata.
“In una battuta di questo dialogo Lucrezio si rivolge a Seneca il quale, nella vita, ne ha viste di cotte e di crude e, a un certo punto, gli dice: Però, alla fine, la vita ti è venuta a cercare”, ha esordito Dionigi, spiegando il senso del titolo. La vita e la morte sono inscritte nella parola greca bíos, che significa “vita” e, al tempo stesso, “arco”. Verrebbe da dire, parafrasando l’Oracolo di Delfi, che entrambe costituiscono le parti di un ciclo identico per tutti, e ciò spiegherebbe che la morte non sopraggiunge mai inaspettata o, addirittura, come una colpa da scontare, ma appartiene all’ordine naturale delle cose.
Insomma, siamo di fronte a due testimoni privilegiati, vissuti a distanza di un secolo circa, alle prese con gli stessi problemi: da quelli primi, come la politica, fino agli “ultimi”, quali la morte e la religione. È in merito alle risposte date a tali quesiti, tuttavia, che le loro strade risultano nettamente divergenti. Entrambi si collocano su due sponde opposte, a cominciare dalla concezione della politica. “Lo stoico Seneca era a favore dell’impegno attivo (negotium), alla ricerca di un incontro fra politica e religione romana, laddove, invece, l’epicureo Lucrezio era un sostenitore del primato della vita teoretica (bíos theoretikós / otium) e suggeriva caldamente di starsene lontani dalla vita attiva, fedele al precetto epicureo del vivi nascosto”, prosegue il professore.
Un altro significativo punto di divergenza fra i due è certamente rappresentato dalla religione. “Lucrezio si spinge ad affermare che la religio è il male peggiore per l’uomo, in quanto frutto di ignoranza e superstizione che determinano tutte le nostre paure e gli affanni. Solo la conoscenza delle leggi della fisica potrebbe aiutarci a superarle. Mentre Seneca, da buono stoico, resterà sempre fedele alle religione civile degli antenati”, chiarisce Dionigi.
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Non è superfluo ricordare, a questo proposito, l’enorme divario che separa i pensatori pagani da quelli cristiani: il dio impatiens di Seneca, ad esempio, non ha alcuna parentela con il Dio che Agostino di Ippona, nei suoi Salmi (40, 13; 18, 54) definisce sofferente (patiens) proprio come suo figlio il Cristo ha sofferto la patientia della croce, ben più potente di quella delle armi. “La strategia ideologica messa in campo dai primi pensatori cristiani nel tentativo di arruolare Seneca come pensatore cristiano, attribuendo, a quest’ultimo, la paternità di un carteggio apocrifo con Paolo di Tarso, significa o non aver capito nulla di Seneca ovvero – il che è peggio per chi si ostina a sostenere queste tesi bizzarre – aver frainteso il senso del cristianesimo”, spiega l’autore.
Per non parlare dell’assurda quanto infondata pretesa del comunismo storico novecentesco, soprattutto attraverso la penna dello studioso marxista B. Farrington, di interpretare Lucrezio come un novello Marx, deciso a liberare, costi quel che costi, il proletariato dall’alienazione politica e religiosa. “Nella nostra epoca, dominata da una schiera di sofisti che incantano con parole cadaveriche e da arruffapopolo che puntano a sobillare le masse mediante la mozione degli affetti, ho sentito il dovere – chiarisce Dionigi – di compiere una grande opera di disvelamento, in greco a-létheia, proprio sulle orme del poema lucreziano”.
Il messaggio di Lucrezio, comunque lo si voglia intendere, ha il merito di aver tolto la maschera ad alcuni idoli che, in maniera larvata, abbagliano a più riprese la nostra mente. Primo fra tutti, la fede in un processo lineare e positivo della storia, quella che già Leopardi chiamava l’illusione delle “magnifiche sorti e progressive”. “Il progresso dedaleo delle arti e della tecnica (techne / ars) innesca una spirale, un meccanismo perverso, una proporzione inversa tra progresso tecnico-scientifico e regresso morale, nel senso che proprio quel benessere sollecita avidità, potere, invidia, ambizione eccetera”, illustra il professore, passando a menzionare la vanità di un altro grande idolo: il potere.
Simbolicamente, esso si incarna nella figura del dannato dell’Ade Sisifo, condannato a spingere lungo il pendio di un monte un masso che, appena sulla vetta, ricade rotolando verso il basso. “Sisifo è il politico per antonomasia perché il suo obiettivo è il potere. Egli è qui, tra noi. In questa vita, egli rappresenta, inoltre, l’uomo afflitto dalla passione amorosa, dilaniato dagli avvoltoi della gelosia”, spiega Dionigi.
Ultimo idolo da abbattere è il linguaggio ingannevole che spezza l’aderenza della lingua alle cose, a garanzia di una transitività diretta verso queste ultime, cioè senza alcuna mediazione. “Soprattutto oggi che viviamo in un rinnovato impero della retorica, in cui i colpi di stato si fanno a suon di parole prima che di armi, noi cittadini del linguaggio rischiamo di essere mandati in esilio a causa della semplificazione delle parole ingannevoli”, conclude Dionigi.
Lucrezio e Seneca sono il simbolo della bigamia dell’animo umano che, come già avvertiva Aristotele, è instabile per natura e inclina ora verso la politica ora verso la cultura. L’insieme di questi valor fra loro contrapposti (politica e antipolitica, credere e capire, otium e negotium) fanno parte della personalità di ciascuno di noi. Il merito degli autori antichi – in ciò sta la loro grandezza e l’atemporalità del loro messaggio – è stato aver sollevato delle domande senza dare delle risposte.
A noi soltanto la responsabilità di intelligere, nel doppio senso di “cogliere il dentro” e di “relazione tra le cose”, l’eredità delle domande che ci hanno lasciato. In ciò sta l’inattuale attualità dei classici antichi.