Storie di gusto è la nuova rubrica di Primo piano. Un “succoso e invitante racconto” delle più note specialità della nostra terra, dagli ingredienti ai condimenti, dalle quantità alle storie dei vari alimenti. Un racconto denso di sapori e saperi; di profumi, immagini e tradizioni da recuperare. La prima Storia di gusto vogliamo dedicarla al famoso “panzerotto”, forse il più noto dei prodotti della cucina barese.
Il panzerotto nasce come cibo per i “poveri”. Anticamente, la rimanenza della pasta del pane veniva “condita” con mozzarella e pomodoro. Oggi, quando la semplicità di un cibo sembra coincidere con il “recupero” di quello che è stato lasciato, è pietanza ricercata e gustata nelle pizzerie e anche in molti ristoranti. Il cibo dei poveri sembra che alletti i “ricchi” o forse è solo la mancanza di una conoscenza culinaria storica, che fa dimenticare come il gusto è anche la capacità di rispettare gli ingredienti e non sprecarne la loro pregiata essenza. La terra d’origine del panzerotto è Bari insieme alle città dell’entroterra attorno ad essa.
La pasta lievitata tende ad ammorbidirsi se la patata lessa s’impasta con la farina soffice. Per rendere la lievitazione più morbida e ottenere i diversi biancori, la pasta della patata si deve mescolare alla farina.
Il pomodoro a cubetti – dopo che la pelle si è staccata, sbollita nell’acqua calda come un bagno purificatore sul fuoco dei fornelli, mentre la pentola d’olio borbotta ancora prima di preparare l’impasto – è importante che si raffreddi per non riscaldare i piccoli pezzi di mozzarella bianca, liscia e sugosa di latte.
Polpa rossa, biancore e morbidezza si mescolano con il roteare del mestolo di legno, che unisce in una giostra di movimenti delicati i gusti tra loro.
I cubetti bianchi e rossi formano un rosato sugoso, una mescolanza profonda di forme e liquidi densi e non più trasparenti; nel colino lasciano l’eccesso d’acqua che potrebbe compromettere la frittura nel bollente lago giallo d’olio, che dorerà queste mezze lune morbide come nuvole salate.
La pasta, prima di mostrare la sua morbidezza, era stata farina passata al setaccio come pioggia di neve sulla tavola di legno, formando una fontana di soffice superficie. Il sale insaporisce prima che il lievito sciolto come liquido denso impasti il tutto.
Tutto questo bianco si unisce in una sfera, che infarinata e coperta da una bianca coltre, va a riposare in un luogo caldo e protetto, dove nessuno la disturbi; lontano dal freddo delle correnti, tra una finestra e l’atra o di una porta che s’apre all’improvviso. Il riposo protetto dell’impasto offre rifugio ai sapori, che devono trovare il tempo di sedimentare. La superficie liscia di questa sfera sembra come una pelle che ha incontrato un lungo massaggio prima di andare a dormire.
Il riposo, in realtà, è solo di poco tempo: anche un’ora potrebbe essere sufficiente perchè la superficie dell’impasto si stenda ancora più.
Dopo la lievitazione, i dischi di questa pasta si stendono sulla tavola di legno. E, allora, le mani e il matterello giocano ad un movimento leggero ma veloce, con la giusta pressione perché lo spessore dei dischi non sia troppo sottile e i dischi rischino di lacerarsi, o non troppo alto, per non soffocare il pomodoro e la mozzarella.
L’impasto, con al centro il pomodoro e la mozzarella, viene richiuso in mezze lune, con i bordi ripiegati con le dita, come petali di fiori carnosi un lembo con l’altro.
Ora è tempo del caldo tuffo nel lago dorato dell’olio, che friggerà queste mezze lune, pronte a gonfiarsi quel poco che serve a manifestare al palato morbidezza di calde e fumanti mozzarelle col pomodoro, che arrosserà il sapore del filato bianco che si scioglierà nella bocca. Il tempo di stare nel lago dell’olio deve essere poco per lato: perché il colore non sia troppo scuro e la pasta non s’irrigidisca, perdendo quella morbidezza che ne esalta il sapore.
Le foto sono di Paola Ricci