Nell’estate del 1926, quando aveva da poco conseguito la licenza liceale, Pavese scrisse una lettera ad Augusto Monti, il suo insegnate di latino e italiano nei tre anni di liceo. Si trovava a Reaglie, un paesino vicino la collina torinese dove i suoi genitori possedevano una villa ottocentesca. Dopo aver raccontato al professore o, se vogliamo, al suo “maestro”, come trascorreva le sue giornate, quali letture stesse facendo e quanto fosse pieno di vita e di aspettative sul suo futuro, scrisse le parole che ogni insegnante vorrebbe sentirsi dire, almeno una volta.
“E a proposito dell’ammirazione le protesto qua che stimo più lei che non tutti i Provveditori del mondo. Finalmente le posso dire senza più timore di esser preso per un suonatore di violino. Non so quanto potrà farsene lei di questa mia povera dichiarazione, ma le accerto che metà almeno dei miei compagni, quelli che conosco bene, son del mio stesso identico sentimento, se non maggiore. Per ora basta, che lei avrà altro da fare. Oso pregarla di una sua risposta, ma mi raccomando sia con tutto suo agio. E in essa mi riveda le buccie interamente, mi critichi, mi maltratti. […] E mi tratti con tutta severità poiché gli ostacoli più sono sodi e più c’è gusto ad abbatterli. […] E lei, imperturbato, mi cambiò il «sodo» in «duro» «difficile» se ben ricordo. Così faccia sempre. Fin da quel giorno, io amai in lei qualcosa di più che il professore”. Queste le sue parole.
Non a sproposito sono state riportate queste parole, considerato che il salotto letterario Degennaro di Bitonto, ha ospitato la presentazione di un libro dal titolo iconico “Profeti scomodi, cattivi maestri” di Gabriella Falcicchio, docente presso il dipartimento di Scienze della formazione, psicologia e comunicazione dell’università di Bari.

“Un titolo provocatorio” ha notato il giornalista Pier Girolamo Larovere, introducendo l’incontro e illustrando la materia magmatica del libro. Un volume non semplice, nonostante i soli tre capitoli e le non numerose pagine, che propone riflessioni su cui l’autrice insiste da tanto tempo ed è spesso tornata, anche e soprattutto nelle sue ricerche universitarie. Ma il volume non si limita ad essere un “contenitore” di idee. Vuole essere anche un omaggio a chi quelle idee ha stimolato: Aldo Capitini, scomparso cinquant’anni fa. Non solo un filosofo, un poeta e un politico ma, forse soprattutto, un grande educatore, il primo a teorizzare nel Paese la nonviolenza gandhiana.
Falcicchio considera Capitini un maestro, nel senso pieno del termine, una guida costantemente “alla ricerca di umanità”, “un esempio di grande coerenza”.
Il libro è “un atto di gratitudine”, dichiara la scrittrice, per chi le ha dato gli strumenti e gli stimoli per l’educazione e la formazione. Capitini trasferì il concetto gandhiano della “no violence” in una parola che fosse iconica e che rappresentasse pienamente il senso più profondo del pensiero e dell’opera di Gandhi: la nonviolenza. Un’unica parola per esprimere l’assoluto rifiuto di ogni atto di violenza. Non, tuttavia, un rinunciare alla lotta, come la scrittrice ha sottolineato più volte. In realtà, un atto di ribellione che non si serve dell’aggressività irragionevole, tipica del violento e di chi si lascia guidare dalla rabbia. Una pacifismo diverso: il fine resta la pace, ma cambiano le modalità, poiché la nonviolenza alimenta una conflittualità sana e di matrice diversa, finalizzata a gestire i problemi di ogni giorno e a vivere meglio. L’avversario non è considerato un oppositore o qualcuno da abbattere, ma una persona con cui avere un “sano scontro” che faccia crescere entrambi.
I concetti della nonviolenza, spiega Gabriella Falcicchio, vanno applicati alla pedagogia, una materia che necessita costantemente di rimodulazione, perché riguarda una realtà – quella umana – perennemente in fieri. Non è più valida la figura dell’insegnante tradizionale, che costringe il bambino ad associare lo studio ad un’attività poco piacevole e lontana dal divertimento, invece di spronarlo ad innamorarsene e ad applicarsi con quel desiderio presente nella stessa radice latina di studere.

Per non parlare della perdita di quel “contatto”, fondamentale per Falcicchio, che precede la formulazione del pensiero e le parole. Il genitore spesso, come l’insegnante, perde di vista l’importanza di questo contatto, di questo dare e ricevere che è edificante per il bambino e gli fa conoscere il mondo che gli sta attorno. Ma è anche qualcosa di più profondo, che difficilmente il pensiero e la parola possono pienamente rappresentare, perché si tratta di qualcosa di tattile, di istintivo, di primordiale, che è alla base della stessa “umanità”.
Rinnovarsi, dunque, è essenziale nella pedagogia, a partire dallo stesso linguaggio, impostato, spesso, su una terminologia di matrice bellica: come strategia o sfida. “Fa pensare ad un duello ottocentesco”, afferma sorridendo la scrittrice. E non solo è arretrato il linguaggio ma arretrate sono anche le strutture.
Quanto alla responsabilità dello stato, la docente afferma, con intento provocatorio, che “sarebbe meglio non facesse niente”.
Le strutture scolastiche e i metodi ormai superati di insegnamento costringono i ragazzi ad un’immobilizzazione totale, sia fisica che mentale, senza tenere in alcun conto i cambiamenti che investono costantemente la realtà.
“Ma esiste una differenza tra istruzione ed educazione?” chiede Pier Girolamo Larovere a Gabriella Falcicchio. “Non c’è differenza -risponde la scrittrice-; la società ha voluto separare due cose che sono legate e che non esistono l’una senza l’altra”. La stessa conoscenza va trasmessa con passione, altrimenti sono solamente nozioni senza alcun valore, incapaci di stimolare l’allievo in alcun modo.
I ragazzi devono essere spinti al “conflitto costruttivo” della nonviolenza. Gli enormi vuoti che i giovani di oggi portano dentro di sé non possono essere colmati con degli oggetti. Si deve avere più fiducia in questi piccoli uomini e piccole donne, perché non si spenga la loro forza vitale nè tantomeno l’anelito alla sana ribellione nonviolenta.
Occorre che possano dire, come avrebbe voluto Pasolini: “Siamo stanchi di diventare giovani seri / o contenti per forza, o criminali, o nevrotici: / vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare / qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare. / Non vogliamo essere subito già così sicuri. / Non vogliamo essere subito già così senza sogni”.