Messi così, uno accanto all’altro – tra di loro solo la figura del moderatore della serata Gianvito Rutigliano, giornalista di Repubblica – i due giganti del fotogiornalismo mondiale ospitati nella Galleria Nazionale della Puglia a Bitonto nell’ambito del Bitalk, in collaborazione con la cooperativa Quarantadue, paiono così diversi tra loro. Uno, l’ultrasessantenne Manoocher Deghati, è iraniano, ha un colorito olivastro, la barba cinerea, il volto espressivo e incline al sorriso. L’altro, Sergey Ponomarev, viene da Mosca, ha meno di quarant’anni, la pelle chiarissima e un look metropolitano che lo fa apparire più enigmatico, ermetico.

Eppure entrambi fanno lo stesso difficile mestiere, hanno posato occhi e obiettivi sulla stessa tremolante materia, fatta di umanità spiantata, di soldati e fanatici, di case squartate dalle bombe, di fughe, paure e morte. Anche se in contesti spazio-temporali differenti, entrambi hanno raccontato violenze e catastrofi del Novecento e del Duemila, fotografando guerre, rivoluzioni, migrazioni, disastri ambientali e sociali e guadagnandosi, a suon di immagini irripetibili, i più alti riconoscimenti del settore. Dal World Press Photo, vinto più volte da ambedue, fino al Pulitzer per la miglior fotografia dell’ultim’ora (la categoria breaking news photography) assegnato nel 2016 a Ponomarev per il reportage sulla crisi europea dei migranti, pubblicato sul New York Times.
Due professionisti di fama internazionale, con un portfolio di scatti impressionante, chiamati a dare forma e volto, attraverso le proprie testimonianze fotografiche, al fenomeno migratorio, così verbalmente dibattuto nella quotidianità mediatica occidentale, eppure così visivamente, dunque sostanzialmente, sfuggente, fluido, indistinto. Esodi, diaspore, esili, di cui rischiamo di perdere il senso, le fattezze, il dramma. Flussi non di fredde merci o elettroni, ma di genti che vivono il dolore di perdere il genus, il genere comune che li tiene uniti, costrette, come sono, da forze crudeli, ad allontanarsi da chi, appunto, le ha generate. Dagli antenati, dalla genealogia, dalla stirpe. Dalla propria storia e identità e patria.
È così per i migranti che più recentemente hanno solcato – e continuano a solcare – il Mediterraneo. I siriani, gli afghani e gli iracheni immortalati da Ponomarev nel 2015, prima all’arrivo nell’isola di Lesbo, poi durante l’infernale attesa per i documenti e ancora nel corso del viaggio verso le agognate destinazioni, fino agli albori delle nuove vite, nella maggioranza dei casi in Germania o nella penisola scandinava, mete privilegiate.

Ed è così anche per quelli più antichi. Perché “la migrazione non è nulla di nuovo, è parte del dna dell’uomo, ma diventa ancora più tragica quando è inevitabile e involontaria”, ha detto Manoocher Deghati, prima di mostrare alla sala, gremita di attenti osservatori, una selezione dei suoi lavori. A partire dalle istantanee del suo Iran ai tempi della rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeyni (da cui lui stesso è stato costretto a fuggire negli anni Ottanta, a seguito delle minacce ricevute dalle autorità khomeiniste, stufe delle sue scomode riproduzioni), fino alle fotografie degli scontri di qualche anno fa al Cairo, dove si trovava, prima di riparare in Puglia, in qualità di direttore dell’agenzia mediorientale dell’Associated Press. Passando per tutta la storia degli anni Novanta e dei Duemila, dalla guerra del Golfo al conflitto israelo-palestinese (a Ramallah è anche rimasto gravemente ferito), dalle bidonville kenyane alle città sovraffollate del Bangladesh, dalle carestie d’Africa alle eruzioni nelle Filippine.

A differenza della stragrande maggioranza della popolazione europea che subisce passivamente l’arrivo di centinaia di migliaia di emigranti da zone del pianeta che a stento riesce a collocare geograficamente, sia Deghati che Ponomarev hanno avuto modo di osservare le radici, di prendere dimestichezza con le cause delle migrazioni. Sconvolgimenti politici, socio-economici e naturali che appartengono alla grande storia contemporanea. Posare i nostri occhi su ciò che hanno trovato, inquadrato e selezionato, è un’occasione rara e preziosa per stabilire un contatto diretto, persino brutale, con quella storia, guardandola dalla prospettiva dei vinti, degli oppressi, più che dei vincitori.
Come quei 60mila abitanti delle sponde della quarta cateratta del Nilo fotografati da Deghati, costretti di punto in bianco a lasciare le proprie case per fare spazio alla costruzione della diga di Merowe, la più grande dell’Africa, e a vivere tra le sabbie di insediamenti in mezzo al nulla, senza risarcimenti né giustizia alcuna. È questa la forza più grande del racconto fotogiornalistico: la capacità di restituire agli ultimi la dignità della cronaca, della testimonianza, sottraendoli all’oblio cui i soprusi e le pedate della storia sembravano averli destinati.