Nel clima riformatore, che contraddistinse il “decennio francese” del Regno di Napoli, furono intraprese nel 1806, da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, iniziative sull’eversione della feudalità, con lo scopo di abolire l’ultimo retaggio del sistema feudale.
Quell’anno vennero emanati importanti provvedimenti legislativi. In particolare la legge del 2 agosto che sanciva, all’articolo 1, l’abolizione della feudalità, lasciando però le terre di appartenenza ancora nelle mani dei loro possessori, e la legge del 1º settembre che, invece, stabiliva la ripartizione e la vendita delle terre demaniali, comprese quelle baronali, ecclesiastiche e comunali.
Quest’ultima legge aveva l’obiettivo principale di ridurre le disparità sociali ed economiche mediante una più equa distribuzione delle proprietà, così da creare una classe di piccoli e medi proprietari terrieri. Con la suddivisione dei demani, venivano assegnate quote di terra a favore dei nullatenenti, sotto il pagamento di un canone, regolarizzato da un contratto di enfiteusi, con la possibilità, da parte degli assegnatari, di riscattare i fondi al raggiungimento delle migliorie previste nell’atto di concessione.
La complessa procedura di privatizzazione delle terre demaniali cominciò già nel 1807, ma richiese molti anni per essere attuata. Nello stesso anno fu istituita persino una magistratura speciale, la Commissione Feudale, per risolvere le problematiche relative alle controversie che scaturirono tra i comuni e gli ex feudatari, usurpatori di molte terre nei secoli. Tantissime le sentenze emanate. Numerosissimi i casi esaminati e risolti, raccolti e pubblicati in un volume da David Winspeare, che presiedeva la commissione.
La ripartizione dei demani, nei fatti, fu resa esecutiva solo con il successore di Bonaparte, il cognato Gioacchino Murat. Fu portata avanti l’attività della Commissione Feudale con molta più incisività, grazie soprattutto al molisano Giovanni Zurlo, grande riformatore e fervente sostenitore di una politica a sostegno dei nullatenenti.
La parcellizzazione dei demani produsse tanti interventi di trasformazione del territorio, talvolta anche su aree molto estese, e il frazionamento agrario interessò, sul finire dell’Ottocento, molti comuni della Murgia. Tra questi, anche Bitonto, dove non vi era un feudatario, ma il governo della città era affidato all’Università, organismo composto da nobili e borghesi. Un esempio di quotizzazione del suolo agricolo, infatti, è presente anche sul nostro territorio murgiano pur se l’area interessata, è piuttosto esigua.
Il paesaggio delle “Quote” generalmente non è dissimile da quello delle “Matine“. Proprio come nelle “Matine“ anche nelle “Quote”, per l’organizzazione e la suddivisione dei lotti, vengono applicate tecniche agrimensorie impostate su schemi geometrici regolari, che fanno riferimento alla centuriazione romana, operazione di sistemazione fondiaria fondata su un reticolo modulare o ad altre forme di appoderamento, più arcaiche, come le strigatio e le scamnatio, basate invece, sulla divisione delle terre per lunghe fasce rettangolari definite a seconda del verso arabile e coltivabile dei terreni.
I lotti ottenuti dalle quotizzazioni hanno dimensioni uniformi, sono tutti di forma rettangolare piuttosto allungata e si adattano alle caratteristiche morfologiche e orografiche della zona. Il disegno così preordinato, secondo la griglia geometrica regolare, individuata dagli amministratori, si adegua all’andamento del suolo, dove spesso, ma non sempre, la continuità e la regolarità stessa del disegno viene alterata per la presenza delle lame.
Le “Quote di Bitonto”, come si può agevolmente rilevare dalle mappe topografiche, sulle quali è riportata l’indicazione del toponimo, insistono su di un’area, poco estesa, dislocata in continuità con quella del bosco comunale.
L’area, infatti, è raggiungibile solo attraverso una strada poderale che si diparte dal piazzale del bosco, dapprima in modo sinuoso e poi a spezzata con tratti lineari, che si avviluppano tutt’intorno al comparto, definendone i limiti e la forma stessa dell’area: una poligonale aperta permeata dalla massa boschiva.
Questa strada, che s’imbocca tra la Masseria della Città e la cisterna per la raccolta dell’acqua, posta al centro dello spiazzo del bosco, nel suo tratto sinuoso, costeggia la massa boschiva, prima da un lato poi dall’altro. Dopo, quando diviene rettilinea, invece l’attraversa. Di seguito,la strada, ritorna ad avere il bosco solo da una parte e dall’altra finalmente le quote. Più avanti, poi si piega e diventa un lungo rettilineo che si apre sul paesaggio, con uno scenario davvero incantevole. Infine, termina con un tratto obliquo che punta dritto sul piazzale più alto del bosco comunale.
La strada separa l’intervento di quotizzazione dalle grandi masse boschive e dalle distese di campi coltivati a seminativo dell’intorno, racchiudendo al suo interno, un insieme di lotti definiti secondo una scala più minuta, da un’orditura di muri a secco o macere. Nel suo tratto rettilineo più lungo, la strada, definisce la giacitura e l’orditura per la suddivisione dei campi, secondo un orientamento che si discosta di poco dall’asse nord-sud.
L’appoderamento, ovvero la divisione dei terreni, nelle quote di Bitonto avviene solo con il sistema a strigatio, ossia con fasce rettangolari, lunghe e strette, tutte parallele alla strada poderale. Nella parte centrale, l’area delle quote è attraversata in modo trasversale, rispetto all’ordito dei campi, da un impluvio che senza alterarne la continuità, raccoglie acqua che va ad alimentare la succitata cisterna del piazzale del bosco.
I campi, come già detto, sono essenzialmente chiusi: ognuno come una sorta di “hortus conclusus“. In contraddizione con la logica intrinseca delle strigae, le quali venivano definite semplicemente da linee ideali di confine (rigores), mentre qui sono delimitati tutti da segni fisici (limites), con muri a secco o macere, realizzati con materiale proveniente dallo spietramento del suolo.
Nella parte più a sud del comparto, nella scansione dei muri a secco, che definiscono gli appezzamenti di terreno, possiamo ritrovare che il lato corto del rettangolo, in più punti, è pari a una distanza di 35,5 metri, oppure il suo multiplo 71 metri. La prima dimensione rappresenta proprio il modulo con cui veniva regolata la divisione nella centuriazione romana, corrispondente ad un actus romano, unità di misura equivalente a 120 piedi.
I poderi, allo stato attuale, sono in gran parte incolti. Dentro é possibile ritrovarvi: vecchi mandorli sparsi, oramai secchi; sporadici ulivi, che in qualche caso si raggruppano a creare una macchia, insieme ad alberi di fico e di peragine o calaprico, il pero selvatico, che è proprio dell’ambiente murgiano. Ciononostante fa eccezione una porzione della fascia centrale, dove trovano posto, alle due estremità, nuovi sesto d’impianto con piante di mandorli e di ulivi, orditi secondo un modulo quadrato che racchiudono nel mezzo un vigneto a tendone.
Quasi tutti i campi hanno un pagliaio come ricovero. In uno si può ritrovare una struttura di tufo monocellulare, con copertura piana, di più recente costruzione. In un altro, invece, singolare e alquanto poetica è la presenza di una costruzione squadrata in pietra calcarea, appartenente a due poderi diversi, ma unificata poiché posizionata proprio su una macera di divisione, costituita semplicemente da due piccolissimi vani di ricovero con l’ingresso ognuno rivolto verso il proprio campo di pertinenza.
Tranne gli appezzamenti che appartengono alla fascia centrale, gli altri sono punteggiati da tanti piccoli cumuli di pietra, diversamente alti e realizzati con la sovrapposizione a secco di materiale calcareo proveniente dallo spietramento del suolo.
A vederli oggi, questi cumuli raggruppati, emanano un fascino straordinario. Sembrano quasi delle opere d’arte, delle installazioni o meglio ancora degli interventi di Performance Art o di Land Art. Potremmo citare a riguardo, su tutti, il lavoro concettuale e materico svolto dall’artista Lara Almarcegui, iberica di nascita ma olandese di adozione, che con le sue installazioni, mucchi di materie prime o materiali da costruzione, montagne di materiali di scarto o di rifiuti quasi sempre disposti a saturazione degli ambienti o degli spazi espositivi, spinge lo spettatore a riflettere sul contesto attraverso l’esperienza vissuta.
Allo stesso modo questi cumuli, insieme alle macere di divisione e ai pagliai, fanno riflettere su lavoro e la fatica compiuta da parte dei contadini neo-proprietari, nel tentativo di rendere coltivabile un suolo improduttivo. Questo è quello che ci racconta l’esperienza delle Quote: testimonianza di una profonda e forse infruttuosa trasformazione del territorio.
Non a caso, tra le espressioni ideomatiche locali, allorquando si vuole mettere alla berlina qualcuno poco propenso al lavoro vi è l’usanza di dire: “vai a spietrare la Murgia”. Il senso racchiuso, in questo detto, lascia intuire la fatica necessaria da compiere per tale operazione senza poi considerare la buona riuscita del risultato.
Tuttavia possiamo considerare l’esperienza delle quote, un modello per forme attuali di progetti che hanno un carattere sociale e che vogliono promuovere l’agricoltura contadina su piccola scala, magari con lo scarso impiego di macchinari, abbondante manodopera e metodi di coltivazione rispettosi dell’ambiente. Progetti che nascono come strumento per aiutare i giovani aspiranti contadini a iniziare la propria attività, con l’obiettivo di salvare il paesaggio rurale dalla speculazione.
Insomma, se volessimo tradurre in un motto efficace che sintetizza bene il senso dell’esperienza delle quote e legarlo ad uno di questi progetti recenti diremmo a gran voce: “Podere al popolo”!