Lo sappiamo. Dentro, dietro e attorno a quello che, in estrema e brutale sintesi, indichiamo come il caso Cucchi, non c’è soltanto il fatto nudo e crudo della morte inconcepibile, durante la custodia cautelare, di Stefano, giovane geometra romano 31enne, trovato in possesso di 21g (il peso dell’anima, come nel film omonimo di Iñárritu) di hashish e 3 bustine di cocaina e per questo trattenuto a Regina Coeli in attesa del processo cui non arriverà vivo.
C’è il caso giudiziario, ovviamente, con le indagini preliminari viziate da errori, omissioni e false testimonianze; le sentenze, le assoluzioni, la riapertura del fascicolo, la faticosa ma ormai inesorabile risalita verso la verità, anche grazie alla svolta di ottobre, con l’ammissione del pestaggio da parte di uno degli imputati. C’è l’incuria dei medici che non hanno evitato la sua morte, l’inerzia generale di tutti coloro che potevano porre un freno allo scivolamento verso il tragico epilogo e non l’hanno fatto. Compresa la famiglia di Stefano, smarrita, disorientata, impotente. Con tutto il dolore e il senso di colpa che ne scaturisce, la disperazione dei genitori, l’attivismo della sorella Ilaria.
E ancora, c’è la storia di Riccardo Casamassima, carabiniere originario di Andria, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura delle indagini e una conoscenza più dettagliata delle responsabilità dell’Arma nella morte di Cucchi e nella copertura dei colpevoli ed è stato per questo punito con minacce, vessazioni e un demansionamento. C’è, insomma, oltre la triste vicenda di Stefano, tutta una serie di questioni, ad essa collegate, che meritano attenzione e inducono, o dovrebbero indurre, ad una riflessione profonda che investa la sfera personale e, assieme, soprattutto quella collettiva.
A questo servono eventi come quello avvenuto ieri 4 novembre – giorno in cui ricade, per grottesca coincidenza, o forse no, la celebrazione dell’unità d’Italia e delle Forze dell’ordine – nell’auditorium “Mons. G. Di Donna” della Chiesa del SS. Sacramento ad Andria, dove l’Associazione di promozione sociale “ideAzione” ha ospitato l’appuntato Casamassima e curato la proiezione di “Sulla mia pelle”, il film che il regista romano Alessio Cremonini ha dedicato alla ricostruzione degli ultimi 6 giorni di vita di Cucchi, dal fermo alla morte.
Dinanzi ad una platea gremita il carabiniere ha definito “inaccettabile” che un ragazzo finito nelle mani dello Stato possa “entrare vivo in caserma e uscire poi morto nel corso di una custodia cautelare in carcere”. Casamassima ha poi spiegato al pubblico in sala le motivazioni che l’hanno portato ad attendere ben sei anni prima di testimoniare, frenato dalla paura di ritorsioni, poi puntualmente verificatesi, ma spinto sempre più dall’insofferenza per il sistema di favoreggiamento e insabbiamento messo a punto per salvare i colpevoli, dalle imputazioni a carico di innocenti e dal diritto alla giustizia dalla famiglia Cucchi.
E prima di congedarsi il militare ha lanciato un invito a far sentire la propria vicinanza proprio ai famigliari di Stefano anche attraverso i social, detentori, secondo lui, di un potere in grado di far emergere violenze perpetrate non solo in questo contesto ma anche in altri (domestico, scolastico, lavorativo) e di favorire denunce e visibilità mediatica. Potenzialità di cui lui stesso, in prima persona, si è servito per denunciare pubblicamente le ritorsioni subite a seguito della deposizione. Perché è appunto questo il fulcro di tutto: più si contribuisce a tenere ben viva la fiamma dell’indignazione e della sete di giustizia e verità e più si farà fatica a nascondere come sono andate le cose. Il caso Cucchi ci ricorda anche questo.