Il mito della guerra non ha mai cessato di trovare cantori. Non sono pochi coloro che, di volta in volta, hanno esaltato l’eroismo, la forza, il coraggio, persino “gli ideali” della guerrra, coprendo, sotto questo manto “estetico”, quanto di più atroce l’uomo, e solo l’uomo, abbia potuto ideare. La retorica mistificatoria della guerra come “igiene del mondo” che ravviva i popoli, secondo il celebre quanto mai agghiacciante slogan del Manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti, non cessa di presentare, con atteggiamento deprecabile, il mito della Prima guerra mondiale. In fondo, per la classe dirigente dell’epoca, si trattò di un conflitto giusto e necessario, in vista del completamento dell’unità nazionale del nostro paese.
Per apparire “giusta”, da sempre la guerra viene caricata di sacralità, espandendo senza misura il suo potenziale distruttivo. Qualsiasi conflitto, passato e presente, finisce per coinvolgere non solo gli interessi dei belligeranti, ma la loro stessa identità, la loro cultura, la propria fede. In una parola, la guerra pone davanti due sole alternative: l’annientamento dell’avversario o la propria morte.
La storiografia più recente, senza tema di smentita, ha ormai accertato che la Prima guerra mondiale fu una pagina nera nella storia d’Europa e del mondo. Una brutale esplosione di violenza col fine di tutelare precisi interessi di classe. In questa direzione protende anche un recente saggio di Lorenzo Del Boca, giornalista, saggista e storico divulgatore, edito da Piemme e intitolato, provocatoriamente, Il sangue dei terroni. Il volume è stato presentato dall’autore in un incontro alla biblioteca Rogadeo di Bitonto, con il coordinamento del giornalista Marino Pagano.
Da sempre impegnato a scavare nelle pieghe della storia, alla ricerca della verità, Del Boca, attraverso documenti d’archivio e diari di guerra, “mette in ordine le carte”, scardinando l’enfasi della celebrazione che troppo spesso prevale sulla memoria delle vicende vere, impregnate del sangue di migliaia di “terroni”.
Chiarita l’equivocità che quest’ultimo termine dischiude, indicante in origine il lavoratore dei campi e solo in seguito passato a designare con sprezzante razzismo l’italiano del sud, l’autore ha esordito chiarendo che “in un’epoca in cui l’Italia era quasi ultimata ma difettava di senso patriottico, il sud finiva per trovarsi appiccicata addosso un’etichetta infamante, con la conseguenza che, insieme alla sua gente, era considerato e trattato come una colonia da sfruttare”.
La tesi di Del Boca appare significativamente innovativa nel panorama degli studi storici, in quanto filtrata attraverso una lente interpretativa meridionalista. In polemica, senza mezzi termini, contro la classe dirigente del tempo, colpevole di essersi arricchita grazie a “un conflitto voluto dai pochi ma combattuto da molti, tra cui, soprattutto, la gente del sud”.
“Chi tuonava che occorresse imbracciare le armi, in realtà si sarebbe riservato il vantaggio di combattere nelle retrovie -spiega Del Boca- mentre in prima linea finirono quelli che avrebbero fatto volentieri a meno di imbracciare le armi, preferendo il lavoro dei propri campi”. Sul fronte avanzato, in faccia al nemico, il tributo di sangue dei terroni era funzionale a una precisa e spietata logica di potere che, nel giro di pochi anni, avrebbe visto l’intera generazione del 1896 finita al macello.
Tra i caduti di guerra, veri e propri “militi ignari”, ci furono contadini, braccianti, piccoli artigiani, quasi per metà analfabeti, giovani di vent’anni, strappati alle proprie famiglie e alla propria terra, inviati frettolosamente a morire in lande remote, tra montagne da incubo e pianure riarse. Le alture del Carso, scenario della guerra, sono presentate simbolicamente come una distesa di sassi che nessuno fra i soldati avrebbe mai voluto conquistare: terre aride e prive di coltivazioni, ben lontane dal paesaggio a cui i meridionali erano abituati.
L’inefficienza militare e l’impreparazione dell’esercito italiano, equipaggiato con armi obsolete e ancorato a strategie militari ottocentesche, causarono il massacro di interi reggimenti di fanteria: un’autentica carneficina in cui persero la vita circa centocinquantamila giovani. “Parliamo di ragazzi utilizzati come carne da cannone, nient’altro che numeri da inserire nelle statistiche stilate dallo stato maggiore. Giovani che donarono la vita in nome di una patria di fatto inesistente e di un nemico sconosciuto e che non avevano ragione di odiare, in quanto estraneo alla realtà delle masse rurali del mezzogiorno d’Italia”, ha spiegato Del Boca.
L’orrore della “grande guerra” fu, inoltre, acuito dalla struttura di trincea, che contribuì a rendere il conflitto ancor più sanguinario e disumano. Agli eroi che, loro malgrado, hanno combattuto in prima linea, l’autore affianca l’eroismo di mogli, madri, sorelle, che “non accettavano di vedere i loro uomini partire per il fronte, certe di non rivederli mai più” e manifestavano contro i poteri forti perchè ponessero fine a quella “inutile strage”.
La furia della battaglia provocò una dipendenza fortissima in quanti si ritrovarono a sostenerla, direttamente o meno. Perché “la guerra è una droga e a spacciarla sono coloro che ne creano il mito. I nostri soldati erano soli, senza più il legame di un comune senso di lotta, senza essere più sicuri di cosa sia la vita e quale senso abbia”, ha chiarito Del Boca.
Italiani sopra austriaci e, poi, sopra ancora ungheresi, dalmati, croati e ancora italiani in una fraternità ideale dell’uomo nella condizione estrema della miseria e della morte.
Per gli altri, e forse per noi tutti, vale il seguente monito: quando si cesserà di ripetere, con compiaciuto fervore, la vecchia menzogna del dulce et decorum est pro patria mori?