“L’amore tra crisi della fede e cambiamento antropologico” è stato il tema di un interessante incontro, svoltosi nei giorni scorsi nella chiesa di San Gaetano, fresca di restauri, a Bitonto. Relatori, Giuseppe Maurodinoia, studente del liceo classico “C. Sylos” e membro della confraternita di san Giuseppe, che ha sede proprio a San Gaetano, e Pier Girolamo Larovere, laureando in Lettere e cultura letteraria dell’antichità. A coordinare gli interventi, Carmela Minenna, docente di lettere; a porgere i saluti istituzionali don Ciccio Acquafredda, parroco della cattedrale e padre spirituale della confraternita. La conferenza ha ruotato intorno al concetto che Dante chiamava moto spiritale. Si è data, innanzitutto, una definizione a questo stato d’animo per poi parlare della famiglia e di come possa aderire “l’amor ch’a nulla amato amar perdona” alla realtà della confraternita.
Carmela Minenna ha aperto l’incontro con un passo dei “Moralia” di Plutarco, opera del I secolo d.C., da cui è stata tratta una possibile definizione di amore. Originato dalla divinità greca Eros, è inteso nell’accezione di qualcosa che fluisce e si scioglie. Il verbo eraō, infatti, significa proprio “riversare”, “versare liquido” (da éar, “liquido”, “succo”, assimilabile alla rugiada ma anche al sangue).
I greci distinguevano tre tipologie di amore: l’eros, il desiderio carnale, la filía, un sentimento spirituale condiviso in una comunità, in una confraternita, e alla base dell’amicizia e, infine, l’agápe, il più elevato tra tutti, perché innalza l’uomo legandolo a Dio, anche se è quest’ultimo a possedere la sua creatura, non il contrario.
Ed è proprio l’amor, quella condizione di “non morte” (a-mors), a legare l’uomo a Dio.
Platone, il celebre filosofo greco vissuto a cavaliere tra il V e il IV secolo a.C., parla di questo dedalo di sentimenti nel “Fedro” e nel “Simposio”. È, tuttavia, nell’ultima opera che si ritrovano i miti che hanno avuto più fortuna nel mondo occidentale e, come sottolineato da Minenna, “il mito è il gemello delle parabole evangeliche”.
Come Pier Girolamo Larovere ha evidenziato, inizialmente si faceva discendere Eros dalla dea della bellezza, Afrodite, e dal dio della guerra, Ares. Ma Socrate racconta nel dialogo platonico che Eros è nato dalla bruttissima Penia, la dea della povertà, e dal bellissimo Poros, il dio dell’espediente e dell’ingegno. I greci non distinguono il dio da quello che rappresenta e perciò chi ama è come il dio dell’amore: brutto, povero, perennemente alla ricerca della bellezza che gli manca e che tenta di procurarsi con trucchi e raffinati stratagemmi.
Il mito del “Simposio” che ha avuto più fortuna è quello dell’androgino, ovvero dei “tre sessi”. Aristofane, il suo ideatore, narra che in principio non esistevano soltanto i maschi e le donne, ma che vi fosse anche un essere che includesse entrambi. Dato che era superbo, mosso da tracotanza (hybris), desiderò spodestare gli dei dell’Olimpo e, così, Zeus lo divise, indebolendolo. Da allora, ogni metà è costantemente alla ricerca dell’altra.
Giuseppe Maurodinoia ha raccontato di un dio pagano, un dio primitivo, al contrario di quello cristiano, che per Paolo di Tarso è un Dio misericordioso e sempre disposto a perdonare, ben diverso finanche dal dio descritto nell’Antico Testamento.
Nella Lettera ai Corinzi, san Paolo celebra l’amore, la charitas, mettendo per iscritto un inno ancora oggi celebratissimo: […] l’amore è paziente e generoso; l’amore non è invidioso, non si vanta, non si gonfia di orgoglio; l’amore è rispettoso, non cerca il proprio interesse, non cede alla collera, dimentica i torti; l’amore non gode dell’ingiustizia, la verità è la sua forza; l’amore tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta, mai perde la speranza […].
San Paolo era pagano; la sua conversione avvenne in un secondo momento, proprio come sant’Agostino. Infatti, Paolo, un tempo gentile, si era avvicinato prima al manicheismo, una religione dualista, basata sulla credenza che vi siano luce e tenebre, bene e male, due sfere antitetiche che influiscono sulla vita degli uomini. Considerata un’eresia per la sua visione drastica dell’esistenza e del divino, spinto da sant’Ambrogio, protettore di Milano e mentore del santo, Agostino lascerà il manicheismo per seguire la dottrina cristiana.
La chiesa lo considera un dottore della fede, per l’impegno profuso, nelle opere e nella vita, nel promuovere il cristianesimo e nella riflessione teologica sui suoi principi e dogmi. Nel suo scritto “De vera Religione”, Paolo afferma che se l’amore sarà alla base di ogni azione, qualunque destino farà sorridere. Invita il suo lettore a non cercare risposte tanto lontano, bensì a guardarsi dentro: “Non voler andare fuori, resta in te stesso, la verità abita nel cuore dell’uomo” (Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas).
Un altro dottore della fede è Tommaso d’Aquino. L’amore, inteso come passio, un ricevere passivamente il bene, nelle riflessioni del santo diviene un atto di volontà, un donarsi all’altro, un affetto che unifica e rende due persone una sola. Dio, tuttavia, al contrario dell’uomo, è in grado di provare un sentimento assoluto e disinteressato. E per seguire l’esempio del Cristo, sono due le caratteristiche maggiormente esaltate: la paupertas e la simplicitas, la povertà e la semplicità. I paradigmi dei due ordini mendicanti, nati tra il 1100 e il 1200: francescani e domenicani.
Pier Girolamo Larovere ha fatto notare che non a caso, nel XII canto del paradiso dantesco, san Bonaventura tesse un elogio dei rispettivi fondatori, san Francesco d’Assisi e san Domenico di Guzmán, alla luce dell’abnegazione e dello zelo con cui hanno perseguito paupertas e simplicitas.
Il relatore ha letto, poi, parte del “Theologia Moralis” di un altro dottore della fede, Alfonso de’ Liquori, vissuto a cavallo tra il ‘600 e il ‘700, per virare, quindi, decisamente verso Freud.
Il padre della psicanalisi, tratta il tema amoroso tra mancanza, assenza e desiderio. Vede l’amore come una lotta per la sopravvivenza e, quindi, per la continuazione della specie, nonché come pulsione aggressiva, figlia della morte. È proprio dell’evoluzione umana questo perenne conflitto tra amore e morte, vita e distruzione. È il bisogno di possedere l’altro, di averlo in modo esclusivo, ad essere centrale, rendendo l’uomo passivo di fronte all’esigenza dell’Io.
Tali premesse hanno avuto il fine di introdurre una riflessione sull’Amoris Laetitia di papa Francesco, enciclica dell’aprile 2016, e, quindi, di dibattere sulla crisi della famiglia e del matrimonio nei tempi odierni. Un tempo, il padre di famiglia era autoritario, il cosiddetto “padre-padrone”, pronto ad atterrire la sua prole. La famiglia era dominata da una visione rigida dei due generi, considerati veri e propri ruoli a cui attenersi totalmente. Questo impediva lo sviluppo dell’identità e delle qualità del figlio, costretto a vivere nella continua paura di non essere adeguato o giusto. Un modello educativo deleterio, che si è dimostrato totalmente inopportuno.
Ma cos’è per papa Francesco la famiglia? “È la vera scultura vivente, capace di manifestare il Dio Creatore e Salvatore”. Alla base, vi è “la coppia che ama e che genera la vita”. E, quindi, possono esserci le unioni civili? “Non esiste fondamento alcuno -scrive il papa- per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio nel matrimonio e la famiglia”.
L’incontro ha offerto un prezioso contributo a riflettere, da un punto di vista filosofico e teologico, sulle ragioni principali della crisi in atto. Il passato è colmo di errori che occorre correggere nel presente, perché il futuro sia migliore.
E quando, ad esempio, tra i diversi aspetti legati alla sfera dei sentimenti, ci si interroga sull’amore tra persone dello stesso sesso, il cuore non può che stringersi al pensiero del peso con cui è vissuta questa condizione: il non essere accettato da Dio o, meglio, da chi dovrebbe rappresentarlo sulla terra.
L’auspicio è che così come lo stato, persino quello italiano (nonostante le intenzioni dell’attuale governo), abbia consentito l’unione tra chi si ama, al di là dell’appartenenza all’uno o all’altro sesso, anche la chiesa possa comprendere che nulla va contro i suoi principi.
Perché se d’amore si parla, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, che importa che sia tra due uomini, tra due donne o tra un uomo e una donna? Ciò che conta davvero, infatti, è la felicità dell’uomo non la redenzione della sola colpa che non ha.
Nell’immagine in alto, Paolo e Francesca in una incisione di Gustave Doré per la Divina Commedia di Dante