Ed eccoci con una nuova intervista di “La scuola fra ieri e oggi”, lungo e appassionante viaggio che Primo piano propone ai suoi lettori, finalizzato ad analizzare con alcuni autorevoli docenti, oggi in pensione, le complesse dinamiche in atto nel mondo della scuola, svelandone punti di forza e criticità, sulla base di un opportuno confronto con il recente passato, che ha visto questi insegnanti protagonisti di significative esperienze professionali tra i banchi con i propri alunni.
Ad accompagnarci in questa nuova avventura, Giovanna Sammati, bitontina, già docente di Lettere presso la scuola media “A. Derenzio” di Bitonto.
Perno intorno a cui ruota la sua riflessione è che ciascuno di noi si muove in vista di un fine da realizzare, non solo perché mosso da buona volontà ma soprattutto perché sollecitato nei propri interessi da coloro ai quali spetta tale compito. Che fa la scuola in questa direzione? Si limita, troppo spesso, a svolgere i programmi ministeriali, adducendo come giustificazione il fatto che suo compito non è educare ma istruire, come se l’educazione fosse un derivato necessario dell’istruzione. Mentre, in realtà, l’istruzione è possibile a educazione avvenuta. Educazione intesa non semplicemente come buone maniere ma come una lenta acquisizione, attraverso vari riconoscimenti, della gioia di sé. Ma ecco l’intervista a Giovanna Sammati.
Sembra facile porre la prima domanda. L’imbarazzo, tuttavia, è sempre lo stesso: da dove cominciamo? Suggerisco, se è d’accordo, di risalire alle origini. Può tratteggiarci, in breve, i momenti più significativi della sua esperienza di docente?
Dopo la laurea in Materie letterarie all’università di Bari, ho iniziato la mia carriera nell’anno scolastico 1972-73. Il mio primo incarico, a tempo indeterminato, prevedeva dieci ore pomeridiane, presso la scuola media “V. Rogadeo” di Bitonto, di libere attività complementari di giornalismo scolastico. Furono anni difficili: la realtà di quella zona era a rischio; alcuni ragazzi provenivano da famiglie collegate alla malavita, erano gli anni in cui la “banda dei Tir” imperversava, e non potevo “brandire” nemmeno l’arma del registro. Ciononostante, sono stata sempre vicina ai miei alunni, cercando di mettermi nei loro panni e di comprendere le inquietudini di quell’età spartiacque fra la fanciullezza e la giovinezza che è la preadolescenza. Può sembrare un paradosso, ma proprio quei ragazzi, provenienti da famiglie con pesanti problematiche sulle spalle, sono stati per me fonte di innumerevoli soddisfazioni e occasione di crescita. Se devo essere sincera, molti dei loro genitori li ho sentiti accanto a me e con loro ho sempre avuto un ottimo rapporto. Ho insegnato anche presso alcuni istituti tecnici: prima a Barletta, poi a Bari, in seguito a Toritto come docente di Lettere. Rimasta a Palo del Colle per un quindicennio, ho poi insegnato alla scuola media “A. Derenzio” di Bitonto, dove ho terminato la mia carriera nel 2009.
Quali sono le evoluzioni più significative che, secondo lei, stanno accompagnando la didattica negli ultimi anni? E fino a che punto una comparazione tra diversi modelli didattici può risultare utile nella formazione degli studenti?
Nel corso della mia lunga carriera ho visto susseguirsi tante riforme della scuola. Sono sempre stata convinta che, prima ancora che sulle spalle dei ministri dell’Istruzione, i cambiamenti strutturali devono camminare su quelle dei singoli docenti. Mi spiego meglio. La riforma della scuola può e, certamente, deve mettere nero su bianco alcuni indirizzi generali; ma poi le priorità attengono al singolo docente. Quest’ultimo, una volta entrato in classe, deve costruire un contesto ordinato e non rumoroso, in senso pratico e in senso lato, in cui avviare l’attività didattica. Ricordo un episodio, verificatosi appena andai in pensione, che mi lasciò perplessa. Ero tornata a scuola desiderosa di sapere quali nuovi insegnanti avrebbero preso il mio posto; ma, ad attendermi, una sorpresa inaspettata: la riforma della scuola Gelmini reintrodusse il docente unico e accorpò l’insegnamento della geografia a quello della storia. Non ho accolto favorevolmente tale cambiamento, constatando la consistenza del taglio operato dalla Gelmini. A mio avviso, si stava attuando una nuova visione pedagogica della scuola, il cui leitmotiv era riassumibile nelle parole della ministra: “Semplifichiamo la didattica e conformiamola ai parametri educativi sul modello americano, più efficiente e razionale”. Che tradotto in altri termini, significava esortare i docenti, attraverso le analisi del testo, a valutare gli studenti unicamente sulla base delle loro prestazioni oggettive. La soggettività, che invece rivela l’interesse e la predisposizione personale di ogni singolo alunno, non era più interessante, in quanto non valutabile oggettivamente.
In questi mesi, più voci hanno sottolineato la necessità di modificare l’attuale sistema educativo. Il quadro oggi sembra quello di una scuola fortemente influenzata dai cosiddetti “poteri forti”: economia e finanza, in primis. Non ritiene che la scuola si occupi più di formare dei lavoratori che uomini e donne consapevoli?
Sono convita che, almeno fino al raggiungimento della maggiore età, tutte le scuole, dalle elementari ai licei, debbano essere, essenzialmente, luoghi di formazione. Bisogna partire dall’uomo. Non ci meravigliamo, poi, se nell’animo di molti manager a capo di istituzioni o imprese, non c’è alcuna traccia dell’uomo, ma solo una tenace volontà ad esercitare il potere nei confronti dei sottoposti. Un potere a volte connotato da puro sadismo. In questo quadro, ritengo che la nostra scuola, negli ultimi anni, abbia fatto un passo indietro. È ancora lunga la via da percorrere, in vista di una formazione a trecentosessanta gradi dei giovani studenti.
Qualche opinionista ha detto che, con l’alternanza scuola-lavoro, si sia rafforzata la prospettiva secondo la quale gli studenti, una volta entrati nel mondo del lavoro, debbano rassegnarsi a non percepire un adeguato compenso. Ne consegue che, terminati gli studi, se viene offerto loro un lavoro per 4/500 euro, non si lasciano sfuggire l’opportunità perché pensano: “Fino a ieri ho lavorato gratis, ma da oggi mi danno un minimo per sopravvivere, che non è proprio male…”
La legge sulla “Buona Scuola”, emanata dal governo Renzi nel 2015, era rivolta soprattutto agli istituti superiori di secondo grado. Non mi sento, quindi, di esprimere un giudizio obiettivo in merito all’alternanza scuola-lavoro, avendo insegnato negli istituti secondari di primo grado. A sostegno di quanto lei diceva, voglio riferire, tuttavia, l’esperienza di mia figlia, anch’essa docente, a riguardo: l’esperienza dell’aternanza si è rivelata un vero fallimento. Io non so se sia proprio così, ma certamente posso dire, stando a quanto ho letto sull’argomento, che si tratta di una prassi molto delicata e che andrebbe gestita con la massima cautela. L’unica vera “buona scuola”, secondo me, è quella in cui gli insegnanti amano la materia che insegnano e ancor di più amano i ragazzi che, di volta in volta, frequentano le loro classi.
Passiamo ora all’introduzione, sempre più massiccia, di internet e delle nuove tecnologie nelle aule scolastiche. L’insegnamento dell’informatica è compatibile con gli obiettivi che la scuola dovrebbe porsi, quali la formazione, il senso critico, la capacità di ricerca?
È evidente che, in un mondo sempre più innervato dalla tecnologia, di cui tutti oggi godiamo i benefici in termini di beni e spazi di libertà, ogni rimpianto nei confronti del passato ha del patetico. Intendo dire che oggi siamo certamente più liberi, ad esempio, degli uomini primitivi, proprio perché abbiamo più ambiti di cui occuparci. Ciò non toglie che occorre ponderare gli effetti e gli eventuali rischi prodotti sui giovani dalle nuove tecnologie. Soprattutto, quando queste ultime, da mezzi utili a un miglioramento della didattica, ciò che è legittimo, diventano il fine, sostituendosi alla formazione generale dello studente. Dipende tutto dall’uso consapevole che si fa di questi strumenti.
Negli ultimi tempi, le cronache hanno portato all’attenzione episodi di violenza da parte degli studenti nei confronti dei loro insegnanti. Insulti, minacce, persino aggressioni. Di fronte a questi episodi, i ministri dell’istruzione parlano di punizioni esemplari, sospensioni e bocciature. Si tratta davvero di soluzioni efficaci per sconfiggere la tara del bullismo tra gli studenti, che prima si esprimeva nei confronti di coetanei e ora ha preso di mira gli insegnanti?
Partirei da un inquadramento di questa figura, che fa la sua comparsa proprio durante il triennio delle medie. Chi è il bullo? Un ragazzo che è rimasto fermo a uno stadio ancora impulsivo nell’instaurare relazioni con i coetanei. La sua comunicazione si realizza unicamente attraverso insulti, spintoni, aggressioni. No, non penso affatto che sospensioni e bocciature rappresentino una strategia vincente sul piano della rieducazione del ragazzo, autore di gesti violenti. Dalla punizione, che deve essere adeguata, si deve passare subito al gradino successivo: educare il giovane a pesare “emotivamente” le proprie parole e le proprie azioni e a percepire la differenza tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Il rischio, altrimenti, è un’eterna coazione a ripetere. Ai miei studenti dicevo sempre che la scuola è come una casa o una nave: ci si danno delle regole per convivere meglio e tutti devono rispettarle. Sotto questo profilo, ritengo che i genitori siano solo parzialmente responsabili della condotta “esuberante” dei propri figli e va considerato il ruolo sempre più preponderante che la società esercita nella formazione dei ragazzi. Va detto, inoltre, che facendo i sindacalisti dei propri figli, alcuni genitori pensano di garantirsi il loro affetto e la loro stima, finendo, invece, per incoraggiare i loro comportamenti scorretti.
Una delle priorità, sulle quali dovrebbe puntare la scuola è la formazione di buoni docenti. È possibile? E in che modo?
Al di là di tutte le riforme del sistema scolastico, di cui si diceva prima, che, immancabilmente, si introducono a ogni cambio di ministro, i mali della scuola sono arcinoti, anche se non li si vuole vedere in tutta la loro evidenza. Il primo è costituito dagli insegnanti non motivati. Molti di loro non sanno proporre nel modo più giusto la propria materia o non sono abbastanza carismatici. Suggerirei di leggere qualche libro di psicologia dell’età evolutiva o anche, ad esempio, Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, una delle figure che più ha influito nella mia esperienza di docente, per capire che, solo se affascinati, i ragazzi trovano gusto e passione per lo studio. Alle volte ho rimproverato anch’io i miei studenti, ma non li ho mai umiliati. Un atteggiamento del genere equivale a ledere la dignità della persona. Quando si ha carisma, da cui discende automaticamente l’autorevolezza, la disciplina non è un problema, e quando lo è, è dovuto al fatto che l’insegnante non è all’altezza del suo compito. Il buon docente non è chiamato tanto a trasmettere dei pensieri, quanto a insegnare a pensare. I ragazzi non sono vasi da riempire, ma menti meravigliose da appassionare.
La scarsità di prospettive di lavoro in campo umanistico non rischia di accentuare l’indirizzo tecnico-scientifico delle nostre scuole, emarginando arte, letteratura e filosofia perché non danno competenze specifiche? Non sarebbe, invece, più giusto incrementare la cultura umanistica per rendere l’istruzione all’altezza dei problemi che il nostro tempo crea intorno alla convivenza e ai doveri e diritti di cittadinanza?
Il piano di studi delle scuole medie prospetta un fascio di materie estremamente variegato, proprio per dare la possibilità allo studente di essere in grado, alla fine del triennio, di scegliere autonomamente il proprio percorso liceale. Ritengo sia davvero essenziale, al giorno d’oggi, l’insegnamento delle materie umanistiche, il cui perno è, per l’appunto, l’uomo. Con tanta tecnologia c’è il rischio di dimenticare finanche di appartenere al genere umano. Quando leggo o sento che, in futuro, l’uomo sarà sempre più simile alla macchina, mi domando, un po’ allarmata: allora, il modello cui dovremo uniformarci sarà il computer? Accanto al sapere tecnico-scientifico, utile per risolvere problemi, raccomanderei, dunque, un forte potenziamento del sapere filosofico-umanistico, per acquisire e sviluppare la capacità di interrogare e argomentare in forma autonoma. Questo tipo di educazione, oggi, è davvero imprescindibile. Non solo per compensare il tecnicismo specialistico, quanto per riuscire a convivere in società sempre più multietniche dove, senza una cultura ampia, critica e perciò tollerante, sarà sempre più difficile evitare di restare intrappolati nella difesa preconcetta della propria specificità.
Sente nostalgia della scuola, proprio come uno studente per le tante avventure vissute tra i banchi? Oggi si dedica a qualche attività in particolare?
Lo confesso: la scuola e il contatto con i ragazzi mi mancano. Per fortuna, avendo quattro nipotini che frequentano le elementari e una figlia, che insegna in un liceo, il mondo della scuola continua a essere presente tra le pareti di casa mia. Dopo la pensione, sono rimasta molto attiva su molti fronti, in specie in ambito socio-culturale: ho sempre militato, sin da ragazza, in associazioni culturali e di cittadinanza attiva, come il Centro Ricerche e Agorà. In seguito, sono divenuta responsabile di un comitato per la legalità, sorto all’indomani di un triste episodio di cronaca nera: una signora albanese era stata ferita di striscio, a Bitonto, da un’arma da fuoco, riportando alcune lesioni. Il mio contributo ora è portare l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole in accordo con i presidi. I valori della legalità e del rispetto delle regole, infatti, sono principi per i quali bisogna battersi ogni giorno, affinché i ragazzi, oggi studenti, possano diventare bravi cittadini attivi.
Nella foto in alto, la prof.ssa Giovanna Sammati