Il pedagogista e storico Pierre de Coubertin sosteneva che “lo sport va a cercare la paura per dominarla, la fatica per trionfarne, la difficoltà per vincerla”. In questa prospettiva, lo sport si può benissimo intendere nell’accezione di puro antagonismo e capacità di rivalsa.
Al giorno d’oggi, però, oltre che fenomeno ludico, lo sport abbraccia nella sua unicità l’ambito culturale, economico e politico. Un calciatore, un giocare di basket, un pallavolista o una tennista non sono più semplici concorrenti ma si fanno portavoce di valori e identità che prescindono dalla mera competizione.
Abbiamo tutti in mente l’intervista in cui Lebron James accusa il presidente americano, Donald Trump, di aver aumentato le tensioni raziali; o, ancora, le immagini della tennista americana Serena Williams che porta avanti rivendicazioni femministe contro l’arbitro Ramos nella finale degli Us Open 2018 persa per un game. Ma da quando gli sportivi e, in particolare, i grandi campioni non sono più solo icone del loro sport ma modelli e personalità impegnate in qualsiasi campo del sociale?
Di questo si è parlato in un convegno intitolato “La cultura dello sport e del giornalismo in America”, organizzato dai giovani del gruppo Studenti Indipendenti dell’università di Bari. All’incontro sono intervenuti Sabino Di Chio, sociologo della cultura digitale, Riccardo Pratesi, cronista negli Stati Uniti per la Gazzetta dello Sport e autore del libro “30 su 30”, e Davide Chinellato, caporedattore della Gazzetta dello sport nella sezione NBA.
Il dibattito ha preso le mosse da un confronto tra la situazione italiana e quella americana degli anni 90’: se in Italia il racconto del calcio lasciava spazio ai commenti ironici della Gialappa’s, in America la telecronaca delle partite del campionato dell’NBA raggiungeva livelli di spettacolarizzazione notevolissimi. I giocatori non erano più solo sportivi ma vere e proprie icone pop: se pensiamo, ad esempio, a Michael Jordan, che recita nel film Space Jam.
L’atleta diventa così un divo, con un significativo cambiamento della visuale dello sport, come si è verificato negli Stati Uniti. Si assiste a un vero e proprio incontro tra sport e spettacolo, con l’effetto che il risultato diventa più importante dell’azione e il singolo giocatore risulta più determinante della squadra. Il fenomeno dell’idolatria del singolo, dall’America si diffonde nel mondo dello sport europeo: pensiamo, ad esempio, a quanto sia importante un pallone d’oro per giocatori come Messi, Ronaldo e Luka Modric.
Viviamo, dunque, in un’era in cui il business conta più della passione per lo sport. Per un tifoso diventa più importante tifare per l’atleta piuttosto che per la squadra. Riprendendo il panorama americano, però, ci accorgiamo che avere successo negli Usa attraverso lo sport può essere motivo di riscatto e, dunque, produrre un forte impatto sociale: per un giocatore NBA di colore come Lebron James, nato in una città ghetto, il basket diventa l’occasione imperdibile per salire la scala sociale in un paese in cui le istanze razziali risultano ancora molto forti.
Anche l’Italia si è adeguata al processo di spettacolarizzazione del singolo atleta e del racconto sportivo: l’ultimo colpo di mercato della Juventus spiega come l’acquisto di Cristiano Ronaldo abbia comportato non solo una crescita a livello tattico ma anche societario ed economico. Se prima contava l’intesa della squadra, oggi è il singolo giocatore a fare la differenza.