Viviamo in un’epoca dominata dalla tecnologia. Un’innovazione continua e irrefrenabile che rischia di cancellare definitivamente ogni traccia del passato.
Basta guardare ai giochi dei ragazzi: smartphone e tablet hanno preso – ma ormai da tempo – il posto di pomeriggi trascorsi in partite di pallone nel cortile di casa o in corse sfrenate per le strade di campagna.
Per non dire dei giochi di cinquant’anni fa. Facendo il confronto con i ragazzi di oggi sembra parlare di un’altra era geologica.
Ma ve lo ricordate (se possibile) come si divertivano i nostri genitori? Negli anni ‘70 non c’erano i pc o le playstation a polarizzare l’interesse dei più giovani. La strada, il pallone, i ciottoli, le biglie e una buona dose di fantasia, uniti ad un certo impegno fisico erano gli ingredienti naturali dello svago e del divertimento tra ragazzi.
Invece di sterminare giga e giga di internet, nel chiuso delle proprie stanze, si scendeva per strada, certo più sicure delle attuali, per incontrare schiere di compagni e dar luogo ad epici tornei di pallone.
E facendo un ulteriore salto indietro nel tempo, magari di soli altri 10 o 20 anni, a tenere banco, nelle mattine afose d’estate o nelle prime ombre della sera, che s’allungavano veloci nei pomeriggi invernali, erano divertimenti ancora più semplici e ingenui.
Un volume edito diversi anni or sono, “Fatti e persone del ‘900 a Bitonto”, a cura di Michele Giorgio per conto dell’Università dell’Anziano, descrive molti di questi giochi, illustrandone scopi e modalità.
Da “re mane ròsse” (le mani rosse) a giochi tipicamente femminili, “peperusse, la mamme ten u russe” (Peperone, la mamma ha il rossetto), si passa a “u sckaffe (lo schiaffo)” e ad “acchiappa firr” (acchiappa ferro).
E, ancora, “re quatte candònere” (i quattro angoli) e “la patèsse (la badessa)”. O, continuando, “Cicce rré cavadde (Francesco re cavallo)”, che esaltava le capacità di equilibrio, oppure “u gire d’Itàlie” (il giro d’Italia), in cui spiccava la precisione di tiro.
Spesso per questi semplici passatempi si ricorreva a mezzi di fortuna: ad esempio, ai noccioli delle albicocche, come in “pare o pìrchie” (pari o dispari).
Un mondo destinato al tramonto e che, invece, andrebbe in qualche modo riscoperto. Nel segno di un divertimento più sano e cosciente, contro il diffondersi sempre più pervasivo di tante diavolerie elettroniche.
Il gioco, infatti, è davvero un’occasione straordinaria di crescita e maturazione, come sanno bene e sostengono tutti gli esperti del settore: dagli psicologi agli educatori. Ma perchè ciò sia possibile, è fondamentale che il momento ludico abbia una chiara dimensione collettiva, in qualche modo sociale, potremmo dire. Insomma, che non sia uno sterile relazionarsi con se stessi, come avviene oggi nel rapporto esclusivo con i supporti informatici, ma che coinvolga una pluralità di attori (glia altri ragazzi), con cui affinare punti di vista, linguaggi, atteggiamenti, analisi, emotività e sensibilità diverse.
Ripensare, dunque, ai giochi di un tempo non è un’operazione nostalgica o sdolcinatamente sentimentale, ma un invito a recuperare una dimensione più autentica e sana del tempo dello svago e della ricreazione: in vista, alla distanza, di una società che sia formata da individui allenati alla dialettica interpersonale piuttosto che al culto narcisistico delle proprie abilità intellettive e della propria volontà di affermazione.
E allora? Ogni domenica si scelga una piazza della città e si ripropongano i vecchi giochi. Potrebbe essere un modo concreto per riscoprire l’allegria, la fantasia, la semplicità e la bellezza di stare insieme, tra bambini e ragazzi, staccando la spina all’arida solitudine di computer e smartphone.